lunedì 31 ottobre 2011

Paura, eh?


Si sappia, io sono una donna coraggiosa. Ipocondriaca al punto da far impallidire Woody Allen, ma coraggiosa. Per capirci, non sono di quelle che quando si ritirano a casa si chiudono dentro con duemila mandate alla serratura, dormo impunemente con la finestra aperta, sono sempre andata in giro da sola anche nel cuore della notte, non temo i ladri. Topi, pipistrelli, serpenti e insetti mi fanno un baffo, anzi il primo animaletto che da bambina chiesi di poter tenere in casa era un verme bello lungo. La vista del sangue mi lascia indifferente. Nel corso della mia vita ho medicato cani, gatti, parenti e accoliti vari con l'efficienza di Florence Nightingale e senza mai perdermi d'animo. C'è solo un luogo dove il terrore s'impossessa impunemente di me senza che io possa fare nulla per contrastarlo: la sala cinematografica.

Naturalmente dipende dal film che proiettano, perché se così non fosse dovrebbero ricoverarmi. Non ho nessun problema con le commedie e neanche con i drammoni, ma basta che il film sia anche solo di un giallo sbiadito per mettermi in allarme. Le mie reazioni poi non sono mai pacate. Mi spavento talmente tanto che urlo, trasalisco, afferro la mano del vicino di posto in cerca di conforto, anche se non lo conosco. Il consorte, nei momenti in cui litighiamo al punto che il divorzio sembra l'unica soluzione, rimpiange di non aver capito fin dalla prima volta che uscimmo insieme che avrebbe fatto meglio a starmi alla larga. Perché, ripensandoci, gli indizi c'erano tutti.

Avevamo programmato una prima uscita che Carrie Bradshow definirebbe da manuale: cinema e cena fuori. Senonché il film che incautamente scelsi, era Le verità nascoste. Per fortuna la sala era quasi vuota perché credo che altrimenti ne saremmo stati banditi a vita. Io, una ragazzona che non finiva più, me ne stavo rannicchiata nella poltroncina (oddio, rannicchiata forse è una parola grossa se si considera che c'entravo a stento) e mi coprivo gli occhi con un lembo della pashmina. Coprivo, scoprivo, guardavo, non guardavo, facevo urletti, sobbalzavo, mormoravo preghiere allo schermo affinché non succedesse la tal cosa e di fianco a me il futuro consorte - che allora non immaginavo nemmeno come futuro fidanzato - mi guardava attonito, desiderando probabilmente di spostarsi in un altro posto, in un'altra fila. Ovunque, purché fosse lontano da me.

Io, che percepivo il suo imbarazzo, cercavo di dominarmi, ma era tutto inutile, e più ci provavo, più mi rendevo ridicola. Nella mia mente si delineava con chiarezza sempre maggiore l'immagine dell'elefante in equilibrio su una sola zampa perché terrorizzato dal topolino, e probabilmente accadeva la stessa cosa anche al futuro consorte, perché d'improvviso cominciò a sganasciarsi dalle risate. Incurante delle immagini che scorrevano sullo schermo, mi guardava e rideva, perché era chiaro che in quel cinema il vero spettacolo lo stessi dando io.

Come unica giustificazione, ho il fatto di aver subìto un tremendo trauma infantile, che non sono riuscita a lasciarmi alle spalle neanche con vent'anni di psicoterapia. Io sono una vittima di Dario Argento. Non so come, non so quando e non so perché - chiaramente ho rimosso la cosa - da bambina guardai Profondo Rosso, e da allora la mia vita non fu più la stessa.  Per almeno un paio di anni, dopo essermi sottoposta all'incauta visione, ho evitato di prendere l'ascensore per paura di rimanere impigliata nelle porte, i quadri appesi alle pareti mi hanno fatto terrorizzare, ho avuto timore anche solo a vedere un tir da lontano, ho detestato l'acqua bollente, i manichini, le bambole e se vedevo una donna con gli occhi bistrati, ero finita.

E non parliamo della musica! Quella canzoncina da far accapponare la pelle, che si presenta come un'innocua nenia per bambini ma poi, con quella improvvisa cadenza d'inganno, ti destabilizza e, dallo zecchino d'oro, ti teletrasporta nell'anticamera del delirio. E per di più tenace, persistente. Uno di quei motivetti che ti entra in testa e non se ne va più; che ti svegli nel cuore della notte e senti il sadico che è in te cantarla ossessivamente, giusto per il piacere di non farti riaddormentare.

Anche quando avevo ricominciato a prendere l'ascensore ed ero ormai diventata abbastanza grande da usare l'eyeliner (nel frattempo eravamo a metà degli anni '80, in piena new wave), la canzoncina continuava a essere il mio tallone d'Achille e chi ne era a conoscenza si divertiva periodicamente a tormentarmi, solo per il gusto di vedermi chiudere gli occhi, tapparmi le orecchie e urlare in preda al panico.

Decisi che ne avevo abbastanza di sentirmi ridicola e vulnerabile solo quando di anni ne avevo 26 e vivevo a Torino, dove seguivo il master in tecniche della narrazione. Una mattina avevo letto sul giornale che alle 23 avrebbero trasmesso il malefico film e avevo capito che quella sarebbe stata la resa dei conti. Per tutto il giorno mi ero caricata in vista della singolar tenzone e la sera ero pronta alla lotta. Dopotutto ormai ero una sceneggiatrice in erba, conoscevo i meccanismi della struttura in tre atti, sapevo a quale minuto ci sarebbe stato il primo colpo di scena,  a quale il secondo... Era solo finzione! Cosa avevo da temere?

Quello che avrei dovuto temere, se solo me ne fossi ricordata, mi fu chiaro fin dai primi minuti della messa in onda. Il film era girato a Torino, la città dove mi ero trasferita. Probabilmente se avessi abitato ancora a Napoli la cosa sarebbe filata liscia, ma visto che invece mi trovavo a Torino, fu un disastro totale globale (come la guerra di War Games). Come potevo rimanere fredda e distaccata? Come potevo razionalizzare quando sapevo che l'assassina si aggirava proprio sotto casa mia? Accanto al bar dove facevo colazione! Dietro l'edicola dove compravo il giornale! Nei pressi della mia scuola! Nello spiazzo dove parcheggiavo l'auto! Nella piazza dove facevo la spesa! Capitemi, come potevo?

Di colpo tornata bambina, vittima delle stesse paure ancestrali di un tempo, desideravo unicamente la mia mamma, il suo conforto. Così le telefonai, fingendomi disinvolta, per una chiacchieratina in notturna, ma lei che - guarda un po'? - mi conosce come fossi sua figlia, ci mise un attimo a smascherarmi e io mi sentii veramente un'idiota.

Ve be',  a volte lottare è inutile, bisogna rassegnarsi. E forse un po' di paura fa perfino bene (però rigorosamente in dose omeopatica). Mi auguro solo che stasera, visto che dolcetti non ne ho, nessuno mi faccia lo scherzetto che più temo e mi canti la famigerata canzoncina. Non conterei troppo sul mio self control.


PANINI ALLA ZUCCA
per 20 panini da mangiare davanti alla tv guardando un horror (che non sia Profondo Rosso)

1 kg di farina 0
700 g di zucca già pulita
100 ml di olio EVO
100 ml di latte
2 cucchiai di zucchero
2 cubetti di lievito di birra
sale
semola di grano duro

Per prima cosa sciogliere in una ciotolina il lievito di birra con lo zucchero, coprire e lasciare fermentare per un quarto d'ora. Quando la superficie si sarà ricoperta di tante belle bollicine, aggiungervi 3 o 4 cucchiai di farina e altrettanta acqua tiepida, formare una pastella liscia mescolando con una forchetta, coprire di nuovo e lasciar lievitare per 40 minuti. Nel frattempo ci si può occupare della zucca che va cotta a vapore fin quando non sarà morbida ma non sfatta. A cottura ultimata, la zucca va schiacciata con una forchetta e messa a colare in uno chinoise, affinché perda gran parte dell'acqua. Quando saranno passati i fatidici 40 minuti, si può finalmente cominciare la lavorazione vera e propria mettendo nell'impastatrice la zucca schiacciata, l'olio, il latte e la pastella ormai lievitata. Avviare l'impastatrice (o rimboccarsi le maniche se si impasta a mano) e aggiungere lentamente al composto iniziale la farina e infine il sale (se si impasta a mano il processo è inverso: si comincia facendo la fontana con la farina e poi si aggiunge tutto il resto). Quando tutto sarà perfettamente mescolato, e il composto sarà nuovamente liscio e omogeneo, spegnere l'impastatrice, coprire la ciotola con un telo e lasciar lievitare per due ore. Nell'attesa, fate ciò che più vi aggrada e poi, ritemprati da queste due ore di svago, affrontate la penultima fase della lavorazione. Tirate via l'impasto dalla ciotola e "sgonfiatelo" con delicatezza, lavorandolo sulla spianatoia e aiutandovi con della semola per non farlo appiccicare. Strozzandone un'estremità fra il pollice e l'indice della mano destra (o sinistra, se siete mancini), formate delle palline che sistemerete su una teglia rivestita di carta forno. Per fini puramente estetici, potete munirvi di un filo di nylon e praticare su ogni pallina delle incisioni incrociate, per formare una specie di asterisco che simuli le scanalature della zucca. Spolverate con la semola, coprite con un canovaccio, e fate lievitare per altre due ore. Preriscaldate il forno a 200°, avendo cura di inserire sul fondo una teglia con dell'acqua, e infornare i panini per 25 minuti. Mangiare tiepidi, farciti con una buona soppressata che contrasti piacevolmente con la loro dolcezza.



E mi raccomando, fate sogni d'oro!

mercoledì 26 ottobre 2011

New York Stories


Dopo una cerimonia nuziale e un ricevimento sui quali più che un post bisognerebbe scrivere un libro, tanto furono tragicomici, io e il novello consorte - ma stagionato convivente, visto che ci sposammo allo scoccare del nostro quarto anno di vita insieme - partimmo per il viaggio di nozze alla volta di New York. Io, che c'ero già stata, l'avevo messo in guardia perché in genere New York è una città che si dà un po' per scontata - ci è così familiare con il suo skyline arcinoto, con i suoi scorci visti e rivisti in centinaia di film e serial, che la sentiamo un po' nostra ancor prima di metterci piede - ma riserva invece moltissime sorprese, del tutto inaspettate.

Inaspettatamente, New York è una città esotica, intrisa di odori di cibo e di spezie che pervadono l'aria al punto che se ne trovano tracce anche se la si annusa dal trentasettesimo piano di un grattacielo. E poi è tanta, troppa. Lo sguardo non ha un attimo di tregua perché, anche se ne conosci l'architettura a menadito, tutto è così diverso da come credevi che fosse, che ne rimani inevitabilmente disorientato. I grattacieli grattano effettivamente il cielo, per strada ci sono effettivamente quasi solo taxi gialli, i newyorkesi hanno effettivamente una percezione della temperatura che varia da individuo a individuo con escursioni termiche non da poco, visto che alcuni sembrano pronti per andare a fare surf e altri per andare a sciare. Tutto è effettivamente più grande, effettivamente con una fragola ci fai una crostata, con un pomodoro un'insalata per 4 persone, con un panino con l'hamburger ti sfami per una settimana. Effettivamente l'acqua è freddissima perché il bicchiere è effettivamente riempito con un dito di liquido e decine di cubetti di ghiaccio.  E tu effettivamente lo sapevi che era così, ma non avresti mai immaginato che lo fosse fino a quel punto. Insomma, ammettiamolo - almeno per i primi giorni - New York ti sembra Hellzapoppin'.

Il consorte era stato avvertito, ma naturalmente non mi aveva creduto. Era partito spavaldo, pensando che le mie fossero tutte esagerazioni, eppure già all'aeroporto JFK si era dovuto ricredere. Poverino, aveva immaginato di vivere la grande mela con la grinta narcisistica e un po' distruttiva del protagonista di un romanzo di Bret Easton Ellis e invece si trovava nel bel mezzo di Totò, Peppino e la malafemmina. Mi teneva per mano e si guardava intorno con la stessa aria falsamente sicura di sé che ostentava Totò al suo arrivo a Milano e io, nelle vesti di Peppino, non ero da meno. Vergognandoci come ladri, salimmo sulla limousine che c'era venuta a prendere (nonostante io avessi prenotato una normale berlina) e ci facemmo portare al Waldorf Astoria che il consorte, vittima di una visione reiterata de Lo zappatore con Mario Merola, si ostinava a chiamare il Uandaffastòr. Cenammo in camera con club sandwich e apple pie e poi, distrutti, ci mettemmo a letto. Un lettone king size morbido e comodissimo, di quelli che così li fanno veramente solo in America. Già pregustavo il sonno profondo che, mi auguravo, mi avrebbe fatto smaltire il jet lag e mi avrebbe messa nella predisposizione d'animo giusta per familiarizzare con New York quando il consorte, stiracchiandosi fra le lenzuola, fece il seguente commento: "In questo materasso si sprofonda. Sembra il letto di Johnny Depp in Nightmare". Naturalmente lui si addormentò subito e io invece non chiusi occhio.

Non vi stupirà sapere che io e il consorte rischiammo il divorzio durante quel viaggio perché, come mai prima di allora, a New York emersero con violenza tutti i tratti caratteriali che ci rendono inconciliabili. Io sono pigra per quanto lui è iperattivo, io sono curiosa per quanto lui è noncurante, io sono precisa per quanto lui è distratto, io sono decisa per quanto lui è indeciso. Sono convinta che rimanemmo insieme per un unico motivo: io, vittima del mio perfezionismo e del mio diploma in americano, non riuscivo a spiccicare una parola per timore di sparare qualche vongola, ma capivo perfettamente quello che mi dicevano; il consorte invece parlava anche con i cobblestone (quando ne trovava uno, ché a New York ormai sono pochissime le strade con l'acciottolato), ma non capiva assolutamente nulla di quello che gli dicevano. Insomma, nella nostra imperfezione, eravamo indispensabili l'uno all'altra. Avevamo messo a punto una tecnica fantastica che ci salvaguardava dalle figuracce: cercavamo di fare tutto - prenotazioni, ordinazioni, acquisti - al telefono. Il consorte parlava poi, non appena il suo interlocutore cominciava a rispondergli, passava la cornetta a me, che traducevo in simultanea e poi gli ripassavo il telefono. Altro che i fratelli Caponi alle prese con la stesura della lettera alla malafemmina!

A New York non c'era nulla che ci mettesse d'accordo. Il consorte voleva passare le serate nei locali alla moda a bere e ballare e io - che palla vivente! - a sentire il jazz. Il consorte voleva fare shopping e io - ma che palle! - volevo andare nei musei. Facemmo tutto; io accontentavo lui e lui accontentava me,  perché da soli non ce la saremmo cavata, anche se la giornata dei saldi da Macy's mise veramente a durissima prova la mia salute psicofisica. L'unica eccezione a questa apoteosi di incompatibilità, fu sorprendentemente un ristorante: The River Cafè.

Al River Cafè, finalmente New York diventa quella che avresti voluto, a prescindere da ciò che desideri. A pelo d'acqua, con la città - ora riconoscibile - che ti si srotola davanti, il profumo dei fiori, le luci basse e la musica del pianoforte in sottofondo, potresti essere in un film di Woody Allen o in una puntata di Sex & the City, e ti guardi attorno per vedere se per caso a un tavolino un po' in disparte non ci siano effettivamente Carrie e Mister Big. Ma potresti anche essere in un romanzo di Bret Easton Ellis, mentre fai tintinnare il ghiaccio nel tuo vodka tonic e rimiri una fauna locale decisamente sopra la media, con l'occhio esperto del predatore. Al River Cafè potresti mangiare e bere malissimo, e non te ne importerebbe, ma invece si mangia e si beve divinamente, e basta andarci una volta per essere definitivamente conquistati. Lo ammetto, il mio matrimonio è salvo grazie a questo ristorante che, in un attimo, ci fece riconciliare non solo con la città, ma anche con la vita. Andateci, se doveste trovarvi a passare di là.


LA VELLUTATA DI ZUCCA DEL RIVER CAFÈ

Per 20 shottini, 6 porzioni da gourmet o 4 porzioni da golosi affamati

1 kg di zucca già priva di semi e scorza
500 g di patate già sbucciate
3 cipolle belle grandi (meglio se bianche)
sale, pepe, noce moscata
olio EVO
100 g di panna
semi di zucca tostati per la guarnizione (da non sottovalutare perché costituiscono anche un piacevole elemento croccante)

Naturalmente anche in quel luogo di assoluta perfezione che è il River Café, io e il consorte ci distinguemmo per imbranataggine e tendenza congenita alla gaffe. In attesa che il nostro tavolo a ridosso della vetrata si liberasse, ci avevano fatto accomodare a un altro tavolo in prossimità del bar, dove ci avevano servito gli aperitivi. A un certo punto, senza che noi avessimo chiesto niente, si presenta un cameriere con due tazzine da caffè su un vassoio. Il consorte, sobillato da me, si affretta a chiarire che noi non avevamo ordinato nessun caffè anzi, dovevamo ancora cenare ma il cameriere, glissando compassionevolmente, spiegò che quelle tazzine erano un omaggio dello chef, un amuse bouche per ingannare lo stomaco nell'attesa che il nostro tavolo fosse pronto. Dentro le tazzine c'era questa vellutata di zucca, meravigliosamente morbida e saporita ma non aggressiva, confortante, familiare eppure sofisticata, sorprendentemente dolce ma stuzzicante nel contrasto con i semi salati che ne guarnivano la superficie. Un sorso di perfezione che su di me, anche a distanza di anni, continua ad avere lo stesso effetto che, immagino, il Cynar aveva su Ernesto Calindri.


Farla è di una semplicità disarmante. Fate un trito con le cipolle e fatele dorare in un filo d'olio, aggiungete la zucca a pezzi, le patate a tocchetti e, dopo averle fatte rosolare qualche minuto, copritele a filo con dell'acqua fredda. Salate, pepate e lasciate cuocere fin quando patate e zucca non saranno ben morbide. Frullate con il minipimer, grattugiateci la noce moscata, aggiungete la panna e mescolate bene con una frusta. Servite la crema ben calda, guarnendola con i semi di zucca.


Per concludere, vorrei rassicurarvi sulle sorti del mio matrimonio. Benché provati dal viaggio di nozze, siamo rimasti insieme e quando, ancora oggi, mi domando come facciano due persone così diverse a dividersi la vita, mi basta rileggere Lui e io, un racconto di Natalia Ginzburg che fa parte della raccolta Le piccole virtù.

È incredibile come una sbirciatina nella vita degli altri renda molto più comprensibile la nostra.

lunedì 17 ottobre 2011

La ragazza del millennio


Incurante di alzare o abbassare il livello dei miei post, dedico questo alla Signorina Bobobò, la mia più giovane lettrice.

Non credo che lei lo sappia, ma io e la Signorina Bobobò ci siamo conosciute all'inizio del 2000 quando i suoi genitori, superato il primo trimestre, ruppero il silenzio stampa di prammatica e mi annunciarono di aspettare un bambino. La nostra frequentazione all'epoca fu molto intensa perché io, la sua mamma e una nostra amica - anche lei in dolce attesa - decidemmo di iscriverci tutte insieme a un corso di critica cinematografica con frequenza settimanale. Andavamo al corso (su cui molto ci sarebbe da raccontare, ma lo farò in altra sede) con la mia 500 in cui all'inizio stavo stretta solo io ma poi, man mano che col passare dei mesi i pancioni crescevano, finimmo con lo stare strette tutte e tre.

Le due bambine ebbero il buon gusto di non fare scherzi e nacquero a giugno, quando il corso era appena finito. La Signorina Bobobò però si distinse immediatamente perché fu così abile da nascere il giorno del compleanno della mamma e della zia (che non sono cognate ma gemelle). Io andai a  vedere che faccia avesse il giorno stesso in cui venne al mondo, e me la ricordo ancora con i capelluzzi neri neri, il ritratto in miniatura del suo papà. 

L'estate del 2000, i miei amici si convertirono tutti alla montagna (salvo ravvedersi l'anno dopo) e trascorremmo un agosto divertentissimo. Un enorme gruppazzo sgangherato fatto di single rassegnate alla singletudine (io),  genitori alle seconde armi, genitori alle prime armi e accoliti vari, ma a dispetto dell'ovvio e del corteo di carrozzine fra cui incedevamo, con lo stesso spirito di un gruppo di sedicenni alla prima vacanza parents-free in Grecia. In quell'estate, la frequentazione con la Signorina Bobobò, che già due mesi dopo la nascita aveva cominciato a mostrare la propria natura di Signorina Bobobò, divenne quotidiana e raggiungemmo una certa intimità. Io la portavo in giro spingendo la sua carrozzina sulla pavimentazione sconnessa del Pratone per cercare di farla addormentare e lei mi ripagava con urla disumane che facevano pensare la stessi torturando, me la davano in braccio che era quieta e sorridente e lei immediatamente scoppiava a piangere.

Tornammo a Napoli e per un po' smettemmo di vederci perché io, contro ogni aspettativa, conobbi il consorte e per un po' frequentai assiduamente solo lui. Ci rincontrammo per strada che lei aveva un anno e mezzo. Io le feci grandi feste ma lei mi disse che ero brutta (come darle torto...) e si rifugiò fra le braccia del padre. Fine della storia, fine dell'idillio, fine di tutto.

La svolta avvenne durante il ponte dell'Immacolata del 2005 quando io e il consorte eravamo ormai sposati e invitammo i genitori della Signorina Bobobò a trascorrere qualche giorno sulla neve con noi. Il papà della Signorina è medico e doveva lavorare, perciò lei e la mamma partirono un giorno prima con me e il consorte. Arrivammo in montagna con un tempo splendido ma la Signorina Bobobò, povera creatura, era stranita da tante novità e non faceva altro che piagnucolare, lamentarsi, borbottare (è per questo che la soprannominai Signorina Bobobò). Sua madre invece non faceva altro che scusarsi con noi e, per cercare di rimediare, portare continuamente la figlia a vedere il beccaccino. Nonostante gli interventi materni, le cose non migliorarono granché e nel pomeriggio la Signorina Bobobò se ne stava in divano, con l'aria afflitta e la sua bambola stretta fra le braccia. Era così chiaro che avrebbe desiderato trovarsi in qualunque posto meno che lì, che mi fece una tenerezza tale da stracciarmi il cuore e decisi di passare alla controffensiva. In una casa dove bambini non ce n'erano mai stati e quindi non c'erano neanche giocattoli, mi inventai un lettino per la bambola fatto con il cassetto del comodino, lenzuola fatte di asciugamani e plaid fatti di sciarpe, rivestii il tavolino da fumo con della carta e ci disegnai sopra un fornello, cercai le pentole più piccole in cucina e feci sacchettini con lenticchie, polenta, cous cous, pastina, perché la Signorina Bobobò potesse cucinare per la sua piccola. In breve la Signorina Bobobò cominciò a non trovarmi poi così brutta e, anziché continuare ad andare a vedere il beccaccino, preferì passare il resto della vacanza con me, giocando all'angelo della neve o facendo pupazzi in giardino (peccato che intanto il tempo si fosse guastato e che quindi queste simpatiche attività si svolsero sotto una nevicata epocale).

Da allora io e la Signorina Bobobò ci adoriamo. Lei è cresciuta e quest'anno va in prima media. È una ragazzina bella e intelligente che si affaccia al mondo guardandolo da un punto di vista insolito e personale. Le piacciono i film in bianco e nero, impazzisce per Susanna e A qualcuno piace caldo, è innamorata di Cary Grant e si stupisce quando scopre che le sue amiche non hanno idea di chi sia. La Signorina Bobobò detesta Hello Kitty e adora i Peanuts, che conosce da molto prima che cominciassero a tornare di moda, le piacciono i musei, le piace viaggiare, ama leggere e cucinare. Essendo figlia di un vero gourmet, è a propria volta una buongustaia e, sebbene sia ancora quasi in fasce, si è seduta alla tavola dei migliori chef d'Italia e d'Europa, apprezzandone la cucina. Insomma, la Signorina Bobobò potrebbe essere un mostro ma invece è così simpatica e dolce che non si può non impazzire per lei e se mai dovessi avere una figlia, vorrei che fosse proprio così.

A lei che sa che, se Linus più di ogni altra cosa desidera vedere il grande cocomero, e Charlie Brown calciare il pallone senza che Lucy lo tiri via all'ultimo secondo, Snoopy brama invece un biscotto al cioccolato, dedico questa ricetta, certa che la replicherà al più presto con risultati eccelsi.

  
 
CHOCOLATE CHIP COOKIES
per 12 bei biscottoni che ne mangi uno e la colazione è fatta.

250 g di farina 00
1 cucchiaino scarso di lievito vanigliato per dolci
1/2 cucchiaino di sale
125 g di burro
125 g di zucchero
90 g di zucchero di canna
1 uovo grande
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
140 g di gocce di cioccolato fondente


Per prima cosa accendere il forno a 190°, poi setacciare insieme la farina, il lievito e il sale, quindi armarsi di frusta elettrica e, in una ciotola ben capiente, montare il burro ammorbidito con i due diversi tipi di zucchero. Lavorare qualche minuto quindi incorporarvi l'uovo e, quando sarà ben amalgamato, l'estratto di vaniglia. Aggiungere la farina miscelata e lavorare il tanto che basta a ottenere un bel conglomerato. A questo punto unire al tutto le gocce di cioccolato e mescolare bene per l'ultima volta. Dividere l'impasto in 12 parti uguali e formare delle palline da disporre, ben distanziate, su due placche rivestite di carta da forno. Schiacciarle con il palmo della mano in modo da formare dei dischi alti 6 o 7 millimetri e infornare per un tempo che va dai 15 ai 18 minuti, o comunque fin quando i biscotti saranno diventati marroncini. Sfornare, lasciar raffreddare 2 minuti sulle placche e spostarli su una gratella, dove dovranno rimanere fino a che non saranno completamente freddi. Conservare in una scatola di latta da tener ben lontana da ladruncoli occasionali.



E adesso scusatemi, ma scappo. Fra poco la Signorina Bobobò esce da scuola e vorrei essere lì in tempo per darle un bacio e due biscotti.

mercoledì 12 ottobre 2011

Luoghi comuni



Quante volte avete sentito dire che le grassone sono simpatiche, hanno il cuore grande, sono tanto paciose e sempre allegre? Bene, non c'è niente di più falso. Le grassone sono prima di ogni altra cosa arrabbiate, anzi arrabbiatissime. Forse il motivo principale della nostra rabbia è che tutti i normopeso diano per scontato che se uno è grasso è perché gli piace troppo mangiare e non ha la forza di volontà necessaria per smettere. Nessuno pensa mai che l'iperfagia, così come la ben più nota anoressia, sia una malattia. Una malattia infida e sottovalutata che è molto difficile combattere, soprattutto considerando che quella contro la malattia non è l'unica battaglia che le grassone devono sostenere.

Come cantava Tonino Carotone "è un mondo difficile" e le grassone - che, lo so per esperienza, più di ogni altra cosa desiderano sentirsi normali - fanno una fatica improba ad abitarlo, fingendo inoltre di sentircisi perfettamente a proprio agio. Volete qualche esempio? Le donne adorano fare shopping. Per le grassone invece non c'è umiliazione peggiore che entrare in un negozio e affrontare il sorrisetto derisorio di una commessa taglia 38 che ti ritiene pazza  perché hai semplicemente osato varcare la soglia del suo tempio dell'eleganza. Per potersi anche solo coprire le pubenda, una grassona deve lambiccarsi il cervello, aggirarsi in incognito nei reparti taglie forti dei grandi magazzini dove, vista la tipologia degli abiti a disposizione, si arguisce che i buyer siano convinti che le grassone siano tutte ottantenni, ordinare su cataloghi on-line abiti scadenti  e di dubbio gusto, e in ultima analisi, organizzarsi in proprio e imparare a cucire (io l'ho fatto) e lavorare a maglia.

Dopo tanta fatica, le grassone, splendidamente abbigliate alla cazzo di cane, possono finalmente esordire in società dove in genere capiscono rapidamente che, visto che hanno tanti chili in più, per essere prese in considerazione devono avere "in più" anche molte altre cose. Devono essere più informate, più ironiche, più intelligenti, più colte, più simpatiche, più spregiudicate, più seducenti, più affabili, più versatili, più, più, più... e sopratutto riuscire a dimenticare, e a far dimenticare agli altri, di essere grasse.

Il guaio è che, quando finalmente sei riuscita a portare a termine questa titanica opera di suggestione ipnotica collettiva, roba da far impallidire Giucas Casella, c'è sempre qualcosa che ti colpisce a tradimento, facendoti drammaticamente ricordare quello che sei. Per spiegarci: vai in banca e non riesci a entrare perché la porta a capsula non si chiude e la voce registrata te ne chiarisce il motivo suggerendoti di "uscire e transitare uno alla volta". Prendi un aereo e la cintura di sicurezza non ti si chiude, tu ostenti nonchalance ma una hostess coscienziosa se ne avvede e, in maniera plateale e con un tono di voce decisamente non discreto, informa la collega che al posto XY serve una prolunga per la cintura. Vai a mensa in RAI e scopri che i tavoli hanno una struttura in ferro che ingloba anche le sedie, che quindi non possono essere spostate, e tu lì non c'entri e devi inventarti un impegno improvviso e fuggire, per non sottoporti all'umiliazione di rimanere incastrata mentre sei al cospetto di tutto il centro di produzione.

Fortunatamente c'è una soluzione a tutto. Io ho un conto bancario on-line, chiedo con discrezione una prolunga per la cintura di sicurezza e me la faccio consegnare non appena metto piede in aereo, mi porto il pranzo da casa (come vi ho raccontato qui) e non metto piede in mensa. Quando poi tutto manca, per cavarsela basta ridere di sé stesse, in modo da trasformare un episodio imbarazzante nel cavallo di battaglia dell'aneddotica personale. Ne volete la prova? Eccovi accontentati.

Il mio primo viaggio negli Stati Uniti durò trentasei ore. Non sto parlando della permanenza in loco ma proprio del tempo materiale che ci misi per arrivare da Napoli a Chicago. Era un viaggio universitario, per cui  partimmo alla volta dell'aeroporto Leonardo Da Vinci alle quattro del mattino, con un pullman turistico. Avremmo dovuto imbarcarci su un volo Roma-Chicago che partiva alle nove, ma il pulmann ebbe un guasto al motore e arrivammo tardi. Nessun problema, ci avrebbero messi su un volo per Parigi e poi lì avremmo preso un altro volo per Chicago, però dovevamo correre perché stavano già imbarcando. Dopo una corsa frenetica salimmo a bordo ma, arrivati a Parigi, non ci fecero atterrare perché c'era visibilità nulla. Ci spedirono quindi a Ginevra, costringendoci a rimanere seduti ai nostri posti, con l'aereo fermo sulla pista, in attesa che da Parigi ci dessero il via libera per atterrare. Intanto a me venne voglia di fare la pipì ma, ovviamente, quella possibilità non era proprio contemplata e mi fu detto che avrei potuto servirmi di un bagno a Charles De Gaulle. Finalmente tornò la visibilità a Parigi e partimmo di nuovo, ma nel frattempo anche il volo da Parigi per Chicago era partito e quindi al nostro arrivo, sempre a patto di correre come i forsennati per non perderlo, ci dissero che potevano imbarcarci per New York dove avremmo poi preso un altro aereo per la nostra destinazione finale. Naturalmente di andare in bagno non se ne parlava proprio ma io, dopo quasi 14 ore di viaggio, ero sull'orlo della pazzia e quindi, non appena l'aereo ebbe decollato e ci fu consentito alzarci, mi fiondai in bagno.

I bagni degli aerei rappresentano per le grassone un autentico strumento di tortura. È come trovarsi chiuse in un sarcofago, e bisogna aver preso un brevetto da contorsioniste circensi per potersi denudare il minimo necessario, prestare attenzione alle basilari norme di igiene e fare pipì senza perdere l'equilibrio. Riuscire a coordinare tutte le operazioni richiese più di mezz'ora e quando alla fine riemersi dal bagno, la maggior parte degli altri passeggeri, munita di cuscini e coperte, era nel primo sonno. Il mio posto era nella parte anteriore dell'aereo e, per raggiungerlo, dovetti camminare un bel po' fra i sedili urtando, e di conseguenza svegliando, un gran numero di passeggeri. A ogni urto mi giravo e mi scusavo con il poverino di turno, sfoggiando un sorriso contrito e un I'm sorry mortificato. Fu solo quando arrivai a destinazione e mi feci scivolare le mani lungo natiche e cosce per sistemarmi la gonna prima di sedermi, che realizzai la tragedia. Nel rivestirmi in modalità Houdini nel microbagno dell'aereo, avevo fatto impigliare l'orlo della gonna nell'elastico dei collant, trasformandola in una sorta di sipario spalancato sul mio culone immenso e, se mai avessi avuto anche una sola chance di passare inosservata, l'avevo sprecata attirando l'attenzione di tutti i passeggeri lato corridoio, quando li avevo urtati. 

Per la vergogna desiderai che l'aereo sprofondasse nell'oceano ma, si sa, i desideri raramente si avverano.
Per fortuna.


MOUSSE DIETETICA DI RICOTTA CON SALSA DI PERA
Per 4 persone

Per la mousse:
300 g di ricotta di fuscella
2 albumi
1 cucchiaio di cacao amaro
1 pizzico di cannella
dolcificante liquido (tipo TIC o Dulceril)

Per la salsa di pere
2 pere williams
cannella in polvere
zenzero in polvere
dolcificante

Una grassona che si rispetti è, per definizione, perennemente a dieta, ma siccome non sta scritto da nessuna parte che le diete debbano essere tristi e punitive, ecco una ricetta facile e veloce che darà un tocco gourmand al vostro regime alimentare.

Passare la ricotta al setaccio (e per setaccio intendo proprio il setaccio a maglia fitta. Non sono ammessi né passaverdura, né schiacciapatate) in modo da renderla un velluto. Dolcificarla a piacere, aggiungere il cacao setacciato, la cannella e mescolare bene. Montare a neve ferma gli albumi e incorporarli alla ricotta, facendo attenzione a mescolare dal basso verso l'alto. Mettere in frigo per almeno un paio d'ore, ma facciamo anche tre. Nel frattempo sbucciare le pere e tagliarle a pezzetti avendo cura però di tenerne da parte 4 fettine per la decorazione. Mettere le pere in una casseruola dal fondo spesso, aggiungere dolcificante, cannella e zenzero secondo il proprio gusto, bagnare con un dito d'acqua e lasciar cuocere finché le pere non saranno morbide. A questo punto frullare con il minipimer e lasciar raffreddare. Grigliare infine le fettine di pera per la decorazione in una padellina antiaderente aggiungendo un po' di zenzero. Formare delle quenelle con la mousse di ricotta (l'occhio vuole la sua parte, specialmente se si sta a dieta) e adagiarle sulla salsa di pere messa a specchio sul piatto. Guarnire con la pera grigliata, spolverizzare con zenzero e cannella e assaporare con calma per prolungarne il piacere.


martedì 4 ottobre 2011

Impara l'arte e mettila da parte


Le prime vacanze estive che io e il consorte abbiamo trascorso insieme sono state in montagna, a Roccaraso, dove io ho casa da sempre. Per convincerlo a partire ci volle il bello e il buono perché lui, che fino a quel momento aveva passato tutte le estati della sua vita tuffandosi ora nel mare di Ischia, ora in quello che lambisce le coste francesi, aveva un'avversione quasi genetica per qualsiasi località non fosse a quota zero. Io invece - che provo una voglia incredibile di correre (ma poi non lo faccio per paura che mi venga un infarto) e cantare a squarciagola "the hills are alive with the sound of music" ogni volta che vedo un montarozzo verde, tanto sono felice - ero sicura che avrebbe trovato la montagna rilassante ma al tempo stesso piena di stimoli e che la nostra sarebbe stata una vacanza indimenticabile. In effetti lo fu, ma per motivi completamente diversi da quelli che avevo immaginato.

Il consorte si rilassò talmente tanto, che trascorse i primi giorni in un stato letargico da cui riemergeva solo per nutrirsi, salvo poi annunciare, con tono disinvolto e l'ultimo boccone ancora da mandare giù, "Bene, io andrei a farmi un riposino". Insomma, io facevo passeggiate lunghissime con i nostri cani, e lui dormiva; andavo a funghi, e lui dormiva; coglievo le amarene e facevo la marmellata, e lui dormiva. Dopo una settimana di questo avvilente tran tran, decisi di correre ai ripari e cominciai a somministrargli dosi massicce di caffè per tenerlo sveglio. Non fu un gran successo, ma ottenni che almeno si spostasse dal letto alla sdraio in giardino, con al seguito un libro preso a casaccio nella mini biblioteca di casa. Il libro in questione era I pilastri della Terra di Ken Follett, uno di quegli easy reading con poco stile e molto plot, che però quando prendi in mano non riesci più a mollare. E infatti il consorte non lo mollò e, scoprendosi avido lettore, cominciò a trascorrere più tempo in compagnia di Ken Follett che con me.

Immagino che molti di voi abbiano letto questo libro ma per coloro che invece ne ignorano il contenuto, riassumerò la trama riducendola all'essenziale (e qui ci vuole un triplo salto mortale, perché stiamo parlando di più di mille pagine di roba). Siamo in Inghilterra, agli inizi del XII secolo e tutto - amori, tradimenti, lotte per il potere, complotti, nascite, morti, rovesci finanziari, improvvise fortune... insomma, altro che soap opera! - ruota intorno alla costruzione di una cattedrale gotica per il priorato dell'immaginaria cittadina di Kingsbridge. Protagonista della prima parte del libro (la storia copre un arco temporale di 50 anni) è Tom il costruttore, colui che per primo cura il progetto della cattedrale e ne avvia il cantiere.

Avete presente quando da bambini andavate al cinema e, finito il film, eravate così esaltati che volevate fare le stesse cose del protagonista? A me succedeva con Calamity Jane, al consorte accadde con Tom il costruttore; solo che il consorte aveva già più di trent'anni. Sorto dalla sdraio, nei rari momenti in cui interrompeva la lettura, si guardava intorno con occhio clinico in cerca di qualcosa da riparare e progettando migliorie da fare in casa o in giardino. Il povero che, avendo studiato scienze politiche, era considerato un po' l'intellettuale di famiglia, e di conseguenza tenuto alla larga da qualsiasi operazione di bricolage dal padre pittore e dal fratello scenografo, a Roccaraso, lontano dal loro giudizio, fu finalmente libero di esprimersi.

Dopo lunghe consultazioni con la signora Chiaverini, proprietaria dell'unico negozio di ferramenta e materiali edili del paese, cominciò con opere di falegnameria, smontando tutti gli scuri e restaurandoli con pazienza fino a farli diventare come nuovi, poi passò alle opere murarie, rifacendo il tetto in tegole della legnaia e infine si dette alla pittura, dipingendo di color lavanda la nostra camera da letto. Improvvisamente cominciò a vedere il mondo con occhi diversi, qualsiasi cosa poteva essere aggiustata, rimodernata, riutilizzata, trasformata. Proponeva passeggiate in montagna per raccogliere pietre con cui bordare le aiuole, incursioni nel bosco per raccogliere legna per la staccionata. A breve diventò estenuante e, chi l'avrebbe mai detto,  finii col rimpiangere i primi giorni di vacanza in cui il consorte dormiva e neanche in sogno immaginava di trasformare la casa in un cantiere. Quando mi annunciò che avrebbe messo mano alla canna fumaria del camino, capii che bisognava fermarlo ma ormai era troppo tardi. "Christian!" - lo chiamai con tono battagliero ma lui, voltandosi con le braccia conserte e il trapano accostato al torace e impugnato a mo' di pistola, mi redarguì: "Da oggi chiamami il costruttore. Tom il costruttore".


INVOLTINI DI PROSCIUTTO DI MAIALE ALL'ARANCIA CON RIPIENO RICICLATO
Per 4 persone

4 fette di prosciutto di maiale
1 cipolla bianca bella grande
il succo di 3 arance
le zeste di un'arancia
1 pugnetto di uva passa
olio EVO, sale, pepe

PER IL RIPIENO
Pangrattato
Parmigiano
scorza d'arancia grattugiata
succo d'arancia
pistacchi
uva passa
olio EVO

Visto che siamo in argomento, si sappia che io ho verso la cucina lo stesso atteggiamento che ha il consorte nei confronti delle opere di bricolage: non getto via niente ma trasformo e riciclo qualsiasi cosa (una volta ho perfino fatto una frittata con un residuo di minestrone, e ho detto tutto). Questi involtini sono stati infatti preparati, in un afflato creativo del sabato sera, con il ripieno avanzato delle alici cucinate per la cena dei 70 anni di mia madre, il mercoledì precedente. Nell'elenco degli ingredienti del ripieno non ci sono quindi  indicazioni per le quantità, ma non dovrebbe essere difficile mescolarli secondo il vostro gusto, avendo cura che il pangrattato prevalga comunque su tutti gli altri e che i pistacchi diano la giusta nota croccante. 


Battete un po' le fettine di maiale in modo da assottigliarle e allargarle per bene. Spargete uniformemente su ogni fettina tanto ripieno quanto basta a ricoprirla completamente, ripiegate i bordi laterali di ogni fettina così che il ripieno non fuoriesca, e poi arrotolatela su se stessa fino a ottenere un rotolino compatto che poi legherete con dello spago da cucina. In un tegame, fate appassire la cipolla tritata in un paio di cucchiai d'olio, quindi aggiungete gli involtini e sigillateli per bene facendoli rosolare su tutti i lati. A questo punto aggiungete l'uva passa, le zeste dell'arancia e, dopo un minuto, il succo delle arance filtrato.  Aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere lentamente a fuoco dolce fin quando il succo d'arancia non si sarà ristretto del tutto, assumento una consistenza quasi gelatinosa. Fate intiepidire, tagliate l'involtino a fettine doppie un centimetro e mezzo e servitele - sempre se vi va - con del purè di patate fatto in casa.

EPILOGO

Nel 2007, diciotto anni dopo la pubblicazione de I pilastri della Terra, è uscito Mondo senza fine che, essendo ambientato a Kingsbridge 200 anni dopo l'inizio della costruzione della cattedrale, né è l'ideale prosecuzione. Sicura che sarebbe stato un regalo graditissimo, l'ho comprato al consorte lo stesso giorno in cui è stato messo in vendita, ma il libro non ha esercitato su di lui il medesimo fascino del precedente. Dopo 4 anni di giacenza sul ripiano del comodino (e una breve incursione a Stromboli dove,  a dispetto della fatica che il trasporto di quel tomo da 1400 pagine e più ha richiesto, non è stato mai aperto), Mondo senza fine lo sto leggendo io. Meglio così, perché stavolta il costruttore di turno edifica un ponte. 

Non oso immaginare cosa si sarebbe inventato il consorte pur di emularlo.