sabato 31 dicembre 2011

Salvavita


Quando sono stanca, sfiduciata, avvilita, impaurita, preoccupata, angosciata, scontenta o semplicemente triste, c'è una sola cosa capace di farmi cambiare umore: guardare La banda degli onesti.

Probabilmente con questa dichiarazione mi sono giocata gli ultimi scampoli di credibilità, ma non importa. Sono arrivata alla consapevolezza che questo film sia l'antidoto perfetto, la panacea contro tutti i mali, dopo lunghissima sperimentazione, e sono sicura di ciò che dico.

Per alcuni anni il mio salvavita è stato Victor Victoria. Divertente, acuto e accurato come solo i film diretti con il tocco felice di Blake Edwards sanno esserlo. Lo vedevo tutte le volte che non riuscivo a dormire perché era rasserenante sapere che, anche quando va tutto davvero male, spesso basta guardare le cose da una prospettiva diversa per volgerle a proprio favore. 

Poi è stato il turno di Una donna in carriera. Così meravigliosamente anni '80 con tutti quei capelli cotonati, le sneakers messe sotto il tailleur per dirigersi in ufficio con passo più deciso e scattante, e le spalline da giocatore di football americano. Lo vedevo per farmi coraggio perché è l'apoteosi del "se ci credi, puoi farcela", nonostante il finale un po' amaro con quell'inquadratura del grattacielo in cui la finestrella dell'ufficio di Tess McGill è solo una fra le tante.

Poi, in ordine sparso, Harry ti presento Sally, C'è posta per te (anche se preferisco infinitamente l'originale), Il favoloso mondo di Amélie... ma nessuno di loro ha il potere placante de La banda degli onesti, e vi spiego subito il perché.

A differenza di tutti gli altri che ho citato, La banda degli onesti - pur facendo ridere di gusto - non è un film che fa sognare, anzi è un film che ti tiene bene ancorato alla realtà. Una realtà concreta, dove si tira avanti fra mille difficoltà, dove si fatica ad arrivare a fine mese e i bambini, per farli svagare, si mandano a seguire un corteo funebre, dove c'è sempre in agguato dietro l'angolo qualcuno pronto a farti le scarpe, dove - sempre a proposito di scarpe - la felicità è poterne aveve un paio nuovo, dove mangiare spaghetti con le vongole e carne alla pizzaiuola è un vero lusso, dove l'unica cosa davvero irrinunciabile è la dignità.

Guardando questo film meraviglioso, si respira quella che immagino fosse la reale atmosfera degli anni '50 dove, seppure a fatica, si cercava di ricominciare, e soprattutto c'era - fortissima - la sensazione che il peggio fosse passato. Perciò adoro questo film, perché nonostante Bordini e Stocchetti voglia dire cambialetti, nonostante l'intimo di sfratto, nonostante il ragioniere Casoria, nonostante i tre eroi finiscano con l'essere più poveri di prima, il peggio è passato.

Auguro a tutti voi un 2012 migliore del 2011.
Il peggio è passato.


PATATE RIPIENE DI BROCCOLETTI
Per 4 persone

8 patate medie
500 g di broccoli baresi puliti
50 g di acciughe sott'olio
100 g di parmigiano grattugiato
un cucchiaio di aceto
una mangiata di uva passa
una manciata di pinoli
1  spicchio d'aglio
2 foglie d'alloro
sale e olio EVO

In omaggio al povero Giuseppe Lo Turco, vittima dell'ineffabile Antonio Buonocore, spero con questa ricetta di sfatare, una volta per tutte, il mito che la carne alla pizzaiuola sia più appetitosa di broccoletti e patate.


Sbucciate le patate e poi, se come me siete un po' folli e maniacali, dotatevi di una bella pietra pomice sintetica e levigatele fino a eliminare ogni asperità.


A questo punto armatevi di uno scavino e rimuovete la parte centrale della patata fino a creare una sorta di barchetta (potete utilizzare gli scarti per fare una qualsiasi vellutata).


Lessate le barchette in abbondante acqua bollente acidulata con l'aceto, salata e profumata con due foglie d'alloro, per 15 minuti.


Scolate le patate quando sono ancora al dente, ungetele per bene sia internamente che esternamente con l'olio, e tenetele da parte. Intanto preparate i broccoletti lessandoli e poi ripassandoli in una padella dove avrete fatto rosolare l'aglio in tre cucchiai d'olio e disciolto le acciughe. Aggiungete l'uva passa e i pinoli, poi spegnete la fiamma e mantecate con tre quarti del parmigiano grattugiato un po' doppietto.

Farcite le patate con i broccoletti, sistematele in una pirofila, cospargetele con il restante parmigiano e infornatele a 180° per una quarantina di minuti.


Servitele calde ma senza rischiare l'ustione.

lunedì 26 dicembre 2011

La mia famiglia e altri Natali


Premesso che l'anno prossimo sono determinata a cominciare a sedarmi l'otto dicembre per smettere solo il sei gennaio a mezzanotte, ecco per voi, cari lettori pervasi da sognante languore natalizio, buonismo vario e torpore da digestione lenta, un post da cui difficilmente vi riavrete: la cronaca di un non Natale.

C'è da dire che io di mio sarei cinematograficamente colma di spirito natalizio, avendo modellato la mia idea del Natale su La vita è meravigliosa, Incontriamoci a Saint Louis, Appuntamento sotto il letto, Piccole donne, Scrivimi fermo posta. E il guaio è che, per un po' di anni, i miei Natali in famiglia sono stati davvero così.

Quando ero piccola, il Natale cominciava almeno un mese prima. A casa della nonna iniziavano ad arrivare i primi cesti di regali gastronomici destinati al nonno, poi i prodotti tipici che i coloni portavano in dono da Gragnano, poi ancora l'olio e una vagonata di caciocavalli e altre delizie che i cugini della nonna mandavano dalla tenuta in Puglia.

Poi veniva il momento di pensare all'albero, che era sempre enorme, e che a casa della nonna bisognava issare su una specie di piedistallo, affinché sotto i suoi rami ci fosse abbastanza spazio per sistemare tutti i regali - che erano frutto di una serie di spedizioni punitive fatte dalla nonna, da mamma e da mia zia in giro per la città-, e almeno cinque pomeriggi erano poi dedicati al confezionamento dei pacchetti, che venivano in seguito nascosti in giro per la casa.

Con gli anni io, mio fratello e i miei cugini, avevamo scoperto alcuni nascondigli: l'armadio dell'ingresso, il vano dietro la tenda pesante del salotto, la doccia del bagno degli ospiti. Ma la nonna era sempre un passo avanti a noi e per ogni nascondiglio individuato, ne aveva già escogitato un altro.

Quattro giorni prima della vigilia cominciavano poi le cucinelle. Oltre a Maria, la domestica che era in casa da sempre, virtuosa esecutrice di gnocchi e fritture varie, l'aiutante prescelta da mia nonna era la mia mamma mentre io ero ammessa in cucina come spettatrice e, all'occorrenza, allieva praticante.

Si preparavano la pastiera, gli struffoli (piccolini che a mio nonno i pallettoni non erano mai piaciuti), l'insalata russa con la maionese fatta in casa con il solo ausilio di una ciotola dal fondo concavo, un cucchiaio di legno e un'oliera con il beccuccio minuscolo, e soprattutto la galantina di pollo - che avremmo mangiato il 25 -, preparata con il cappone che i coloni portavano da Gragnano e da me ritualmente cullata fra le braccia come fosse un neonato quando era già cucita e legata stretta nei panni di cotone e aspettava solo di essere messa a bollire.

La sera della vigilia a tavola eravamo più di venti persone e ricordo benissimo che dopo la cena, i regali e i giochi, si aspettava la mezzanotte per poter affettare la galantina e farne almeno un assaggio, visto che ormai a mangiare carne non si commetteva più peccato.

Questo quando ero piccola ma poi, a partire dalla metà degli anni '80, la storia della mia famiglia ha cominciato ad assomigliare talmente tanto alla trama de I Buddenbrook, che se Thomas Mann fosse stato ancora vivo ci avrebbe sicuramente fatto causa per plagio.

È ormai un bel po' che il Natale a casa mia non è più Natale e mi domando se e quando tornerà a esserlo. Quest'anno si sono fulminate anche le lucine con cui il consorte addobba la libreria e l'unico a funzionare è il filo verde che dona alla stanza, ma soprattutto a me che la sera sono tutt'uno col divano, un bel colorito stile Incredibile Hulk che, a dirla tutta, fa anche un po' impressione.

A cena a casa di mia mamma, la sera della vigilia, eravamo in cinque, e insieme facevamo un totale di 320 anni portati davvero male. Abbiamo mangiato in mezz'ora, aperto i regali in dieci minuti e siamo andati a dormire che erano sì e no le undici di sera.

Non so proprio immaginare cosa possa esserci di meno natalizio, perciò mi consolo pensando al tempo traslato del mio lavoro dove, fortunatamente, oggi 26 dicembre si festeggia Pasquetta con tortano, affettati, uova sode e pastiera, e intanto continuo a sperare che l'anno prossimo vada meglio.

Ma faccio scorta di benzodiazepine.


Composta di Radicchio
Per 4 barattoli da 200 g

1 kg di radicchio trevigiano tardivo
500 g di zucchero
30 g di radice di zenzero
la scorza grattuggiata di due limoni
pepe nero macinato al momento

Nella devastazione emotiva di questi giorni, l'unica cosa che mi ha riportato ai Natali della mia infanzia è stato cucinare, non tanto per il cenone (che, come avrete dedotto, aveva più il sapore del cibo da mensa ospedaliera che altro) quanto per preparare composte, chutney e marmellate di agrumi che spargessero per la casa il profumo delle feste. Fra le tante cose preparate, la mia preferita è questa composta di radicchio dal gusto insolito ma estremamente accattivante, ideale per accompagnare il salmone in tutte le sue declinazioni.

Lavate il radicchio poi, emulando Marina Tagliaferri, tagliatelo a striscioline sottili sottili. Sistematelo in una ciotola con lo zucchero, la scorza del limone, il pepe e lo zenzero sbucciato e ridotto in minuscola dadolata (vi servirà un coltello affilato come un rasoio), mescolate bene il tutto e lasciatelo a marinare per 2 ore.

Trascorso questo tempo, trasferite sia il radicchio che il liquido ottenuto dalla marinatura in una casseruola dal fondo spesso e cuocete a fuoco lento fin quando tutto il liquido sarà evaporato e lo zucchero avrà cominciato a caramellare. Invasate a caldo in barattoli sterilizzati, procedete quindi a una seconda sterilizzazione e poi lasciate raffreddare a testa in giù.

martedì 13 dicembre 2011

Jacaranda


Come immagino sia successo a molte altre, da bambina rimasi folgorata da Cenerentola. Solo che io non subiì il fascino del cartone animato targato Disney, bensì quello del musical del 1955 diretto da Charles Walters, La scarpetta di vetro.

Inutile girarci intorno, la storia è sempre quella: una virtuosa ragazzina orfana di padre, cresciuta dalla matrigna crudele e relegata da quest'ultima al ruolo di sguattera a cui sono affibbiati i lavori più umili - mentre le due sorellastre, antipatiche e brutte, vengono trattate con i guanti bianchi - troverà alla fine l'amore e si riscatterà dal proprio infelice destino sposando il principe azzurro. 

La vera differenza fra questo film e quello della Disney non sta nella storia - che francamente non mi ha mai entusiasmata - ma in un elemento secondario che però, e non esagero, ha cambiato la direzione della mia vita: il personaggio della fata madrina.

All'adorabile, ma anche un po' irritante, Fata Smemorina della Disney, che non ha altro merito se non quello di possedere una bacchetta magica, con la quale per inciso si destreggia anche maluccio (un po' come Neville Paciock nei libri della Rowling), nel film di Walters corrisponde l'eccentrica Madame Toquet (in quest'unico spezzone da me trovato parla in portoghese, ma almeno così vedete che faccia ha).

Madame Toquet altro non è che la pazza del villaggio in cui abita Cenerentola, una vecchia vedova caduta in disgrazia che vive di espedienti rubando un po' qua e un po' là, e che tutti evitano con cura. Cosa c'è in lei di così affascinante da colpire la fantasia di una bambina e segnarla indelebilmente? Ve lo dico subito. Madame Toquet colleziona parole.

Da piccola la cosa mi parve meravigliosa (in realtà mi sembra meravigliosa ancora adesso). Non avevo mai pensato alle parole come a qualcosa di prezioso, una cosa che andasse coltivata, salvaguardata, e quel piccolo cambio di prospettiva mi aprì un mondo incantato, che era sempre stato lì a portata di mano, ma di cui non mi ero mai accorta prima.

Fra le parole collezionate da Madame Toquet c'era, ovviamente, Cenerentola - che le piace dal momento stesso in cui la giovinetta le rivela il proprio nome e che ripete più volte con intonazioni diverse, come assaporandolo - ma purtroppo non ricordo le altre, e non sono riuscita a trovare da nessuna parte un filmato (o anche solo la sceneggiatura) di quella scena per poterle recuperare.

Perciò quello che al momento posso fare, è elargirvi un po' di parole della mia personalissima collezione, cominciata il giorno stesso in cui vidi il film (credo 35 anni fa) e mai termitata.

Intercapedine, giuggiola, arcobaleno, mongolfiera, cinematografo, libercolo, ceruleo, alambicco, bisaccia, mendace, dagherrotipo, amaranto, ombelico, calamaio, stazzonato, arcolaio, astrolabio, sestante, ciottolo, accipicchia, baluginio, maggese, pervinca, pacciamare, bagnomaria, ranuncolo, parafulmine, dondolo, minuteria, vivandiera, crinolina, caleidoscopio, ineluttabile, arcano, piroscafo, epifania, riverbero, jacaranda...

Continuerei a scriverne per ore, anche solo per il piacere di mormorarle a fior di labbra mentre le scrivo e compiacermi di averle pronunciate levando loro la polvere di dosso perché - e non sono certo io a dirlo - il nostro lessico diventa sempre più povero, e di una povertà imbarbarita, disseminata di neologismi inutili, di anglismi, di italianizzazioni, di storpiature, di pleonasmi.

Perciò, visto che ormai siamo in clima natalizio, vi invito a farvi un regalo: aderite all'iniziativa della Società Dante Alighieri e adottate una parola da usare, coccolare e proteggere per un intero anno preservandola dall'uso improprio o dal finire dimenticata. 

La mia è plenicorno. E la vostra?


Patate MÈTRODOTÈL

Patate tagliate a tocchetti di media grandezza  (diciamo 4cm di lato, va')
Latte
Burro
Sale
Prezzemolo

Inutile dire che questo è il modo in cui le chiamavo quando ero piccola, credendo si trattasse di una parola italiana, e pensando avessero un nome che eguagliasse in bellezza la loro infinita bontà. In realtà le patate maître d’hôtel (è questo il modo giusto di chiamarle), sono state per anni la mia bestia nera in fatto di cucinelle. Mia nonna e mia madre hanno sempre accompagnato le istruzioni per farle con un liquidatorio "non ci vuole niente", e invece a me continuavano a venire immangiabili, provocandomi attacchi d'ira funesta seguiti da momenti di cupa depressione in cui dubitavo delle mie doti di cuoca.

Adesso che invece ho imparato a prepararle, posso finalmente dire anch'io che "non ci vuole niente". O meglio, niente di più che qualche piccola accortezza: tagliate le patate a tocchetti regolari, mettetele in una pentola dal fondo spesso (o in una cocotte in ghisa) e copritele con tanto latte quanto basta a creare un simpatico vedo non vedo. Aggiungete un paio di noci di burro (ovviamente più patate fate, più burro dovrete metterci) e il sale. Lasciate cuocere a fuoco bassissimo, girando il meno possibile, fin quando il latte - che si sarà asciugato - e le patate - che si saranno in parte disfatte - non avranno formato una sorta di crema dalla quale faranno capolino le patate ormai deliziosamente fondenti. A questo punto unite una bella manciata di prezzemolo tritato finissimamente, date una mescolata e servite. Abbiate pazienza e soffiate sulla forchetta prima di mandar giù anche un solo boccone perché, e parlo per esperienza, se vi fate prendere dalla golosità, l'ustione sul palato è garantita.


PS: Jacaranda è l'ultima parola entrata a far parte della mia collezione, ma è anche - anzi soprattutto - un meraviglioso albero della famiglia delle bignoniacee, con le foglie pinnate e i fiori dal blu al violetto, disposti a ciocche e così leggeri da essere facilmente cullati dal vento. Questi alberi tropicali da un po' di anni abbondano per le strade di Napoli, dove hanno sostituito i mandorli e gli agrumi piantati negli anni '60. 

Se còlti, i fiori avvizziscono ma i frutti legnosi - che se rimangono sulla pianta si dischiudono liberando dei piccoli semi alati - invece diventano sempre più belli, passando dal verde acceso delle rane, al marrone caldo del guscio delle tartarughe e quando seccano, se urtano l'uno contro l'altro producono un suono asciutto, come di nacchere. 

Sì, sembrano proprio nacchere... è un suono bellissimo... quasi quasi mi viene voglia di ballare il flamenco... 

Ok, forse è meglio che smetta di giocarci prima che il consorte si alzi dal divano in preda a una furia omicida e venga a strapparmeli di mano.

mercoledì 7 dicembre 2011

MOLTI DI VOI NON LO SANNO...

...ma avevo promesso a tutti coloro che mi seguono su Facebook che appena avessi raggiunto i 10.000 contatti sul blog, avrei organizzato una grande festa per i lettori della Gastronomica Volante.

IL MOMENTO È GIUNTO (fatico ancora a crederci!) perciò non mi resta che darmi da fare. Vi anticipo che la festa si terrà a gennaio e prometto di farvi sapere in tempo utile dove e quando, di modo che possiate organizzarvi.

Accorrete numerosi. 
Che ci sarà da divertirsi credo l'abbiate ormai capito.


giovedì 1 dicembre 2011

Dinner Boxes

 
Tutto è cominciato a metà ottobre quando Carla - la mia compagna di studi, la mia migliore amica, la mia testimone di nozze, la mia sorella non di sangue ma per scelta - mi ha raccontato che lei e gli altri talenti che con lei dividono lo studio, i co-workers del 137A, stavano organizzando un evento in collaborazione con il ristorante Veritas. Ognuno di loro avrebbe allestito una tavola particolare a cui poi i clienti del ristorante avrebbero cenato.

Era una domenica pomeriggio ed eravamo a casa sua, mi ricordo che stavamo pigramente sorseggiando un tè. Cominciammo a parlare di cosa si sarebbe inventata Carla per la sua tavola e dopo dieci minuti era già chiaro a entrambe che quell'evento lo avremmo fatto insieme. Di nuovo in coppia dopo più di vent'anni dagli ultimi esami di gruppo universitari. A momenti neanche ci credevo, al di là del piacere grande di condividere un progetto, Carla mi stava dando la possibilità di far fare alla mia Gastronomica Volante il debutto in società.

C'è da dire che io e Carla quando decidiamo di fare una cosa, la facciamo per bene. Ci crediamo, e di conseguenza ci esaltiamo, e più ci esaltiamo, più puntiamo in alto, e più puntiamo in alto, più la cosa diventa complessa. Insomma, per farla breve l'idea di partenza era quella di giocare con il pubblico e quindi celare la mise en place con una scatola di cartone - la dinner box - che sarebbe stata sollevata solo al momento della cena, come si fa con le cloche d'argento.

Naturalmente le mise en place non sarebbero state tutte uguali, avrebbero evocato atmosfere diverse, fatto nascere emozioni e sensazioni molto contrastanti fra loro. Quindi, tanto per cominciare, bisognava mettersi alla ricerca di piatti e oggetti per la tavola che ci piacessero e stuzzicassero la nostra fantasia. È stata una ricerca complessa, che Carla ha svolto egregiamente, riuscendo a farsi recapitare in tempo utile piatti e placement che provenivano dalla Francia, dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti e da diverse città d'Italia. È perfino riuscita a convincere i tipi della Seletti a prestarci un piatto che sarebbe stato messo in vendita solo a partire da gennaio 2012.

Poi abbiamo cominciato a pensare che sarebbe stato bello abbinare a ogni mise en place una ricetta diversa, ma dato che l'evento si sarebbe tenuto in un ristorante dove c'era già uno chef a elaborare il menu per la serata, le nostre ricette avrebbero dovuto essere cartacee. Il compito naturalmente è spettato a me, che per più di un mese ho cercato di trarre ispirazione dal decoro dei piatti e dai titoli che avevamo dato alle mise en place, per poi elaborare, sperimentare, correggere, rielaborare le ricette, farle assaggiare al consorte e a pochi amici fidati e quindi fotografare la pietanza (attività svolta prevalentemente nelle primissime ore del mattino, prima di mettermi a sceneggiare).

Quando il progetto ha cominciato a essere a fuoco, sono cominciate anche le nostre opere di arts & crafts. Carla ha costruito le scatole in cartone ondulato, io ho cucito le borsine di feltro che avrebbero contenuto il libro di ricette e che sarebbero state date in omaggio a coloro che avessero deciso di cenare alla nostra tavola. Eravamo stanche ma soddisfatte. Poi sono cominciati i dubbi.

I dubbi, si sa, si manifestano di notte e quindi, per la gioia del consorte, io e Carla, puntualmente, ci telefonavamo a vicenda a partire da mezzanotte. Il problema principale era fare in modo che il pubblico, coloro che avrebbero partecipato all'aperitivo che avrebbe preceduto la cena, potesse vedere le mise en place. Bisognava, secondo Carla, prevedere che ci fosse una hostess che, su richiesta degli avventori, sollevasse le Dinner Boxes. Indubbiamente così avrebbe funzionato, ma io volevo qualcosa di più divertente. E se prevedessimo dieci performer, uno per ogni Dinner Box, che sollevino le scatole a tempo dando vita a uno spettacolo ispirato a quello delle fontane del Casino Bellagio a Las Vegas? Nel momento stesso in cui finii di pronunciare la frase mi resi conto dell'assurdità della cosa, ma Carla evidentemente no, perché ne fu subito entusiasta.

Da quel momento in poi passammo da Tre passi nel delirio a Oggi le comiche. Credete sia facile convincere dodici stimati professionisti a diventare performer per una sera, a imparare una coreografia e a esibirsi ripetutamente in pubblico a intervalli di venti minuti? Beh, non lo è affatto, ma - sarà che io e Carla sappiamo essere molto persuasive, sarà che abbiamo amici disponibili e ironici - ci siamo riuscite. Le prove di questa performance, con me nelle vesti davvero improbabili di coreografa e direttrice d'orchestra, sono state una delle cose più esilaranti della mia vita e sono pronta a scommettere che diventeranno uno di quei ricordi capaci di far ridere con le lacrime anche a distanza di anni.

Se l'evento è stato un successo, è stato proprio grazie ai performer che, con la loro coreografia, hanno fatto la differenza. Perciò ringraziarli tutti mi sembra il modo migliore per concludere questo post.

Rigorosamente in ordine d'altezza: Gigi Marino, Gigi Bove, Cristiano Rocco, Riccardo Abbamondi, Diego Nuzzo, Claudio Pellone, Enzo Trentola, Christian Trentola (sì, c'era anche il consorte!), Fabrizio Ricciardi, Gigi Delehaye, Francesco D'Albore, siete stati dei Dinner Boxes Boys indimenticabili! Tutta la mia gratitudine va poi a Daniela Cicatiello Spagnuolo, la nostra Dinner Boxes Girl, capolavoro di efficienza, simpatia e allegria, anche alle prese con un megafono dal funzionamento incerto.

E naturalmente grazie a Carla Celestino, senza la quale la mia vita sarebbe stata sicuramente meno divertente, meno intensa, meno avventurosa, meno piena, meno tutto.

Per voi, gentili lettori del mio blog, in alto a sinitra, sotto la mia fotina striminzita e le mie informazioni personali ancor più striminzite, c'è l'icona delle Dinner Boxes con il link per scaricare il libro di ricette elaborato per l'occasione (scaricate gente, scaricate).

E per finire, una sbirciatina alle pre prove e alle prove generali (1 e 2). Che avreste dato per esserci?

mercoledì 30 novembre 2011

My own private making of

Questo per darvi giusto un'idea del perché nell'ultimo periodo si sia dormito davvero poco.


Se stasera farete un salto da Veritas per un aperitivo, ne vedrete delle belle; altrimenti non vi resta che aspettare il resoconto della serata che vi farò domani.

Nell'attesa, godetevi una sbirciatina dietro le quinte.


































Perché non venite a trovarmi?

sabato 26 novembre 2011

Caccia al ladro

 
È un periodaccio. Io e il consorte siamo stracchi per i troppi impegni, il troppo lavoro, le mille incombenze, i troppi cani da accudire, le troppe cose a cui pensare e la consapevolezza, subliminale ma comunque presente, che fra un mese sarà Natale, anche se noi ci ostiniamo a far finta di niente.

Nonostante io passi le prime ore del mattino (diciamo dalle 6 alle 9) a cucinare e fotografare, la sera si mangia quasi sempre pizza da asporto direttamente nel cartone. Dopodiché il consorte porta fuori i cani, e ci svacchiamo in divano con il proposito di vedere una nuova puntata di Dexter o di Homeland, ma poi non facciamo in tempo neanche a guardare i titoli di testa che siamo belli e che tracollati, rattrappiti sul divano come se fossimo due ottantenni.

In genere un paio d'ore dopo, diciamo alle 23 circa, il primo di noi a cui, vista la posizione infelice, viene un crampo, si sveglia e sveglia l'altro. Così, intontiti, infreddoliti e doloranti, ci trasciniamo a letto desiderando dormire per le successive 72 ore, ma drammaticamente consci che alle 6 meno un quarto suonerà la sveglia.

Per la verità le sveglie sono cinque: la mia, quella del consorte, quella del mio cellulare, quella del cellulare del consorte e quella del cronografo del consorte - fastidiosissima - sistemato per sicurezza in soggiorno, in modo che per spegnerla ci si debba necessariamente alzare. Questo perché noi non dormiamo, sveniamo. In questo periodo, di norma finiamo in una specie di delirio narcolettico da cui riemergiamo con fatica estrema. Ma l'altra notte non è andata così.

Mi sveglio all'improvviso, con la sensazione che il consorte non sia al mio fianco, infatti apro gli occhi e vedo che il letto è vuoto. Stranita, mi volto e individuo mio marito vicino alla finestra; ha scostato la tenda e guarda fuori attraverso le persiane. Do una sbirciata alla sveglia e realizzo che sono le quattro meno un quarto quindi, sempre più perplessa, gli chiedo cosa faccia lì in piedi e lui, bisbigliando, mi spiega di essere stato svegliato da un rumore sospetto, poi - serafico - mi comunica che un ladro sta cercando di rubarci la vespa, parcheggiata proprio davanti casa.

A dispetto della pacatezza del consorte, io reagisco subito con il mio solito piglio energico e, scansato di scatto il piumone, mi alzo intimandogli di seguirmi e aiutarmi a catturare il ladro. Il consorte esita giusto un attimo, poi entrambi ci fiondiamo alla porta e usciamo così equipaggiati: il consorte in pigiama di flanella scozzese, birkenstock e piumino d'oca; io - in camicia da notte di flanella grigia (tristissima), pantofoline di spugna turchese e batticarne preso al volo in cucina nel caso ci fosse bisogno di difendersi - incarno la versione contemporanea di Ave Ninchi in Domenica d'agosto.

Per arrivare in strada impieghiamo giusto un minuto, visto che abitiamo al piano terra, ma il ladro già non c'è più. Però c'è la vespa, riversa esanime al centro della carreggiata. Rimaniamo immobili e silenziosi a scrutare la via deserta e fiutare l'aria come cani da caccia, poi a un tratto il consorte indica un'auto parcheggiata dall'altro lato della strada, a una ventina di metri da noi e mi dice semplicemente: "là". Io cerco di mettere a fuoco, ma non ci riesco visto che per la fretta non ho indossato gli occhiali. Così mi fido dell'occhio di falco del consorte e, a scatola chiusa, comincio a urlare: "Fetente! Ma che volevi fare? Ci stavi fregando la vespa?".

Insomma, faccio un tentativo alla cieca (proprio in senso letterale) ma faccio centro. Da dietro la macchina emerge un ragazzo di cui, vista la mia cecataggine, intuisco solo un paio di pantaloni bianchi, i capelli neri e... una bicicletta! Con notevole presenza di spirito, il mariuolo rivolta la frittata e cerca di convincerci di essere INCIAMPATO nella nostra vespa, lasciata incautamente al centro della strada, di essere di conseguenza caduto dalla bicicletta e di avere pertanto bisogno del nostro aiuto.

Io, fuori di me, gli rispondo con un signorilissimo: "Ma che fai, ci prendi per il culo?", mentre il consorte, più padrone di sé, mi dice di rientrare in casa e chiamare la polizia. Il ladro ci supplica di non farlo e ci esorta piuttosto a riportarlo a casa. Ce l'avremo una macchina per dargli un passaggio, no?

Il consorte comincia a perdere la pazienza, mi dice di nuovo di chiamare la polizia, e intanto si dirige verso il ragazzo che, si capisce benissimo, è sul punto di fuggire. Io, presa dalla foga, non gli do ascolto e punto a mia volta verso il ragazzo ma, vittima della mia cecità e delle mie pantofoline di spugna, inciampo in un fosso e mi azzoppo irrimediabilmente. Il consorte si distrae per guardare me, e il ladro approfitta del nostro momento di defaillance per montare sulla bici e fuggire (in salita!).

A me e al consorte non resta che occuparci della povera vespa, che ci accingiamo a sollevare e a parcheggiare al sicuro, quando il consorte scopre che il fetentissimo ladro mitomane e affabulatore, fra una chiacchiera e l'altra ci ha spaccato la canna dello sterzo. Pazzo di rabbia, vorrebbe riacciuffare il ragazzo in bicicletta inseguendolo lungo la strada, e mi chiede di aiutarlo ad accendere la vespa. Io che, nonostante la camicia da notte triste, le pantofoline di spugna, il batticarne e il piede zoppo, mantengo miracolosamente una certa autorevolezza, lo convinco a desistere facendogli presente che, beh, sarebbe difficile riuscire a fare anche solo un metro con la vespa, visto che ormai è strabica, con lo sterzo che guarda a sinistra e la ruota che se ne sta a destra.

Decidiamo perciò che ormai è andata com'è andata, e riprendiamo a trascinare la vespa verso il marciapiede quando - nel deserto delle quattro del mattino - si ferma davanti a noi una volante della polizia. Il poliziotto alla guida apre il finestrino e, brusco e minaccioso, ci chiede cosa diavolo stessimo facendo con quella vespa. Per caso stiamo cercando di RUBARLA?

Ora io vi garantisco, dall'alto dei miei 130 chili, che se avessi intenzione di compiere un furto notturno sceglierei come minimo un abbigliamento più consono. Non dico che opterei per una tutina nera aderente in stile Eva Kant che, ovviamente, non mi posso permettere, ma di sicuro troverei qualcosa di meglio di una camicia da notte di flanella grigia (ribadisco: tristissima) e un paio di pantofoline di spugna turchese. Illustro il ragionamento al poliziotto e nel farlo, lo ammetto, gesticolo giusto un po', ma evidentemente quanto basta perché il poliziotto si accorga del batticarne (in legno) e mi accusi di essere ARMATA.

A questo punto interviene il consorte che, cercando di essere succinto e convincente, fa un riassunto delle puntate precedenti, ovvero comincia a raccontare quello che è successo da quando è stato svegliato da un improvviso rumore metallico. I poliziotti ascoltano, ma io sono sulle spine perché sentendo ripercorrere tutti quei micro avvenimenti l'uno in fila all'altro, comincio a rendermi conto di quanto siano surreali e poco credibili. Il ragazzo nascosto dietro l'auto che poi riemerge con una bici, ci accusa di avergli provocato danni fisici, ci chiede di accompagnarlo a casa e poi, mentre siamo distratti fugge in salita. Ma chi se la beve questa storia?

I poliziotti invece sembrano persuasi che sia andata proprio così e ci dicono di non preoccuparci, si lanceranno subito all'inseguimento del malvivente, noi possiamo tranquillamente tornare a casa e rimetterci a dormire. Ancora frastornati, eseguiamo profondendoci in mille ringraziamenti e compiacendoci del fatto che l'arrivo della polizia, in fondo, sia stato un vero colpo di fortuna.

È solo quando siamo di nuovo a letto e stiamo cercando di riprendere sonno che qualcosa comincia a non tornarmi. Come fanno i poliziotti a lanciarsi all'inseguimento del ladro senza una denuncia e, soprattutto, come fanno a tenerci informati se non sanno chi siamo, dove abitiamo, da dove veniamo e dove andiamo? Sottopongo il quesito al consorte sostenendo che i due ci abbiano bellamente preso per i fondelli, ma per lui quella storia è durata anche troppo, e la sua unica risposta è la seguente: "Bene, ja', statti zitta e vedi di dormire, che fra un'ora suona la sveglia!"


GLI SPAGHETTI DELLA DISPERAZIONE
Per due persone

160 g di spaghetti
1 cipolla di tropea
1 vasetto di tonno sott'olio
1 vasetto di acciughe sott'olio
1 fetta di pane raffermo
olive nere, capperi, peperoncino, sale, olio EVO

Ve l'ho detto, in questo periodo cucino tanto, ma quasi nulla di quello che preparo è mangiabile per cena (a giorni ne scoprirete il motivo) e le mie spese al supermercato, pur frequenti, sono sempre mirate. Per questo motivo, ultimamente nella dispensa ci sono le cose più assurde ma manca invece l'essenziale. Questi spaghetti sono della disperazione proprio per questo motivo: il consorte non ne poteva più di pizza da asporto e io cercavo disperatamente qualcosa da preparargli (che non fosse il solito aglio e olio, che peraltro detestiamo entrambi) con quello che c'era in casa.

Il trucco di questa pasta, la sua ineguagliabile bontà, sta tutto nel pane, ed è proprio da lì che si comincia. Tagliate il pane a tocchetti e tritatelo nel mixer con un po' d'olio. Ne otterrete un pan grattato grossolano ma omogeneamente intriso d'olio. Scaldate una padella capiente, e rosolateci il pane che - essendo condito in modo uniforme - diventerà bello dorato e non saprà di pane abbrustolito bensì di pane fritto, ma senza essere unto. Levatelo dalla padella e tenetelo da parte, intanto - mentre mettete a bollire l'acqua per gli spaghetti e calate la pasta- tagliate a julienne la cipolla di Tropea e, usando la stessa padella di prima, fatela appassire in due o tre cucchiai d'olio con un pezzetto di peperoncino. Aggiungete le acciughe, che dovranno disciogliersi, il tonno (il mio era artigianale, comprato a Stromboli), le olive e i capperi. Fate andare per cinque o sei minuti. Quando la pasta sarà cotta, mantecatela direttamente nella padella, tenendo a portata di mano un paio di cucchiai di acqua di cottura nel caso diventasse troppo asciutta. Impiattate condendo a profusione con il pane dorato e compiacetevi di quanto si possa mangiar bene anche quando il frigo è vuoto.