mercoledì 29 giugno 2011

Tea time!

Il tavolino da caffè del nostro soggiorno proviene da casa di mia nonna e, negli anni, ha subito varie trasformazioni. All'inizio è rimasto color legno e mi sono limitata solo a sostituire la stoffa del ripiano, poi all'interno, sotto il vetro, ha ospitato un bellissimo puzzle anni '50, dopodiché è stato dipinto di bianco e rifoderato con una tela bluette. Errore fatale il bianco, perché con tre cani che gironzolano sempre nei paraggi sperando di raccattare qualche briciola o ci si accucciano sotto a dormire, c'è voluto poco perché  il tavolino diventasse bianco sporco e poi decisamente grigio, convincendomi che era arrivato il momento di un nuovo restyling.

Complice una settimana di pausa dalla scrittura (delle sceneggiature, per il resto - come in parte si è visto - ho scritto moltissimo!), mi sono dedicata al bricolage, e adesso il mio tavolino bianco sporco e blu è diventato così.


Mio marito, che è molto concreto e poco propenso all'immaginazione (ma ha tanti, tantissimi altri pregi), ha osservato le varie fasi di lavorazione con crescente scetticismo. L'azzurro delle parti in legno gli sembrava troppo "calcio Napoli" (lui è orgogliosamente juventino) e la bandiera che avevo dipinto, troppo "sbavata". A nulla è servito ripetergli con lo stesso tono di stoica sopportazione usato da Madeline Kahn: "Jasper Johns, caro, Jasper Johns", lui è rimasto tenacemente  perplesso fin quando non ha visto l'opera finita che, fortunatamente, gli è piaciuta moltissimo.

Lo ammetto, probabilmente il recente viaggio a Londra mi ha un tantino influenzata,  ma ormai è fatta e questo tavolino in stile "rule Britannia" è passato d'ufficio dal ruolo di tavolino da caffè a quello di tavolino da tè (anche perché io il caffè non lo bevo mentre ho sempre sul fuoco il bollitore pronto per il tè).

Niente di meglio di una pigra domenica pomeriggio, quindi, per inaugurarlo con dei muffin fatti con quel che c'era in casa (nello specifico una tavoletta di ritter bianco alle nocciole, un reso di un cliente di mio marito che transitava da casa per combinazione) ma poi rivelatisi incredibilmente buoni. 

MUFFIN CON CIOCCOLATO BIANCO E NOCCIOLE AL PROFUMO DI LIMONE

Per 8 muffin

ingredienti secchi
1 tavoletta di ritter bianco alle nocciole da 100 g (ma se siete schizzinosi nulla vi vieta di usare altro)
150 g di farina 00
40 g di farina di nocciole tostate 
50 g di zucchero
1 bustina di lievito per dolci
la buccia grattugiata di un limone
1 pizzico di sale
ingredienti umidi
1 uovo
150 g di latte intero
60 g di burro fuso
1/2 cucchiaino da caffè di pasta di vaniglia

Tagliare al coltello la tavoletta di cioccolata fino a ridurla in pezzi abbastanza piccoli, quindi unire tutti gli ingredienti secchi avendo cura di setacciare il lievito. Sbattere l'uovo e aggiungervi la vaniglia e il latte.  Mescolare gli ingredienti liquidi (compreso il burro fuso) a quelli secchi, lavorando giusto il necessario ad amalgamarli, ma non di più. Disporre il composto in una teglia da muffin imburrata e infarinata o in pirottini di carta (da sistemare comunque nella teglia, ma vi risparmierete di imburrare) o in piccole vaschette di alluminio usa e getta (anche in questo caso non serve imburrare), riempiendo fino a 3/4 della capacità e infornare - in forno preriscaldato a 180°, ribadisco: esiste un'altra temperatura? - per una ventina di minuti. Servire tiepidi.



sabato 25 giugno 2011

Reminiscenze notturne


Io e mio marito soffriamo d'insonnia. Ma non dello stesso tipo d'insonnia. Se lui tira tardi perché non riesce a prendere sonno e si addormenta solo nel cuore della notte, è quello il momento in cui io - crollata per la stanchezza verso le undici - mi ridesto sapendo che non mi addormenterò di nuovo se non alle prime luci dell'alba. Ovviamente di restare a letto, magari a leggere, non se ne parla perché accendendo la luce disturberei il primo sonno del consorte, così emigro nel soggiorno dove accendo la tv nella speranza di trovare qualcosa che mi distragga abbastanza - di modo che mi passi l'ansia - ma al tempo stesso mi annoi quel tanto che basta a farmi tornare il sonno.

Nello zapping selvaggio che una ricerca così complessa impone, m'imbatto nelle cose più strane e vengo presa da magoni non indifferenti (mi è capitato di rivedere un episodio di Ellery Queen e ricordare esattamente dove e quando l'avevo visto la prima volta: un ristorante di Roccaraso che non esiste più da almeno venticinque anni, durante la settimana bianca del '79), ma non è che abbia molte alternative. Una volta ho provato a mettermi a cucinare per portarmi avanti con il pranzo del giorno successivo, ma mio marito si è svegliato al suono del santoku che batteva sul tagliere di bambù e si è precipitato in cucina con un ghigno assassino. È stata solo la consapevolezza che ad avere il coltello dalla parte del manico ero io (in senso vero e non figurato), a farlo limitare a dirmi di piantarla e tornarsene a letto borbottando che sono pazza.
Ma non divaghiamo.

Durante una delle mie notti insonni davanti alla tv, mi è capitato di stoppare il mio zapping su Babel, un canale di Sky dedicato alle persone di altre culture e paesi che però vivono in Italia. Il programma era Food e Ricette dove, sostanzialmente, di volta in volta uno straniero che ormai è in Italia da tempo, cucina dei piatti tipici del proprio paese d'origine. Quella sera toccava a Suela, una bellissima signora albanese che - mi sembra di ricordare - fa la commercialista a Latina.

Ora, sarà che sono un po' strana, ma se mi si nomina la cucina albanese, la prima cosa che mi viene in mente è il ristorante abusivo "I quattro venti" di Staten Island dove l'intrepido Victor Velasco trascina un'entusiasta Corie e i più riluttanti Paul ed Ethel - rispettivamente il marito e la madre di Corie - per una cena che si rivela indigesta e disastrosa. Insomma, la cucina albanese nel mio immaginario non rappresenta proprio il massimo della goduria, e invece...

E invece Suela si mette lì a parlare di un piatto antico, un po' dimenticato (e infatti in rete non ne ho trovato che flebili tracce) che preparava sempre sua nonna, e alla fine avevo l'acquolina in bocca al punto da rifarlo per cena il giorno dopo e continuare a farlo regolarmente da allora. Sto parlando del...

PISPILI
Per 4, 6 o 8 persone (dipende dalla fame e dall'uso: piatto unico, secondo piatto, antipasto...)

500 g di spinaci puliti
100 g di rucola
1 cipolla bianca piccola
300 g di feta
300 g di farina bramata di mais
sale, pepe nero, olio EVO e acqua

Si tratta fondamentalmente di uno sformato di verdure ed è quindi dalle verdure che si comincia la preparazione. Seguendo i dettami della nonna, Suela mischiava le verdure con il sale e pian piano le strappava a pezzetti sempre più piccoli fino a ottenere una grossolana poltiglia. Io ho fatto così un paio di volte poi mi sono convinta che facevo molto prima a tritarle al coltello e quindi ho cambiato metodo, pur avendo più o meno lo stesso risultato.


Voi fate come preferite, l'importante è che dopo questa operazione otteniate un composto omogeneo e umido a cui aggiungerete - sempre mescolando - la cipolla tagliata a fettine sottilissime, il pepe macinato al momento, un filo d'olio (veramente un filo, non ne serve più di tanto), tre/quattro pugnetti di farina bramata e la feta sbriciolata in pezzi non troppo piccoli.


Ciò fatto, foderate una teglia (io uso una pirofila 20x30cm) con della carta forno che ungerete appena, e rovesciateci dentro l'impasto di verdure, schiacciandolo bene fino ad ottenere uno strato uniforme e compatto. Mettete poi in una ciotola la farina rimasta, aggiungete un po' d'olio e tanta acqua quanta basta a creare una sorta di malta per intonaci e rivestite quindi la superficie delle verdure in modo omogeneo.


Ancora un filo d'olio per rendere la crosta ben croccante e via nel forno, a 180° (esiste un'altra temperatura?), per un'oretta. Servire tiepido.


Per curiosità: se mai dovessi trovare la ricetta, qualcuno di voi sarebbe disposto a mangiare i knichi (senza addentarli)? ;-)

giovedì 23 giugno 2011

Rebel Rebel Tabulé

Io e il tabulè ci siamo conosciuti in Corsica durante una vacanza itinerante in vespa che, per tutti coloro che vi presero parte, è da tempo entrata nel mito. Fu amore al primo assaggio nonché il mio primo vero atto di ribellione verso la cucina di mammà (da cui il titolo del post).

Facendo un rapido calcolo, credo che nella mia famiglia le donne si muovano agilmente fra i fornelli almeno da un centinaio di anni, e nel loro tramandarsi accuratamente le ricette di generazione in generazione, hanno sviluppato una sorta di snobismo verso tutto ciò che non è preparato secondo le loro regole. Le uova sode nel ripieno dei timballi e dei sartù involgariscono, il pesce è tabù perché impuzzolentisce (sigh!) la casa e si tollera solo bollito - accompagnato da una patata lessa e condito con un cucchiaio di maionese casalinga - nei giorni in cui bisogna mangiare di magro, non esistono arancini di riso degni di questo nome che non siano bianchi e con il ripieno di carne, piselli e fiordilatte così come non esiste minestra che contempli altri ingredienti al di fuori di patate, carote, sedano e scarola.

Insomma, a casa mia si è sempre mangiato benissimo ma guai a uscire dal seminato.

Per un po' di anni (pochi, pochissimi per la verità) ho seguito anch'io questa linea di condotta e ricordo ancora che se venivo invitata a pranzo da qualche compagna di classe, cercavo sempre di sottrarmi perché mi straniva mangiare qualcosa di diverso da quel che conoscevo. Poi per fortuna la mia curiosità ha prevalso e, timidamente, ho cominciato a sperimentare altro. La cosa veniva tollerata da mia madre e mia nonna che l'etichettavano come una delle tante stranezze dell'adolescenza, ma quando a 18 anni tornai dalla Corsica innamorata del cous cous, per loro fu davvero troppo e ne derivò una frattura (ovviamente solo culinaria) che in parte continua ancora adesso...   



Il tabulé l'ho sempre fatto a memoria, cercando il sapore di quell'estate in Corsica, e nella mia versione è molto essenziale (anche se, anni dopo, leggendo "Buon appetito, Elia" di Elena Loewenthal, ho scoperto che non c'ero andata tanto lontano).

Per 4 persone

4 o 5 pomodori San Marzano
il succo di un limone
olio EVO
un paio di rametti di menta
sale
300 g di cous cous precotto

Tagliare in una dadolata i pomodori e metterli in una ciotola capiente facendo attenzione a non disperderne l'acqua di vegetazione. Condirli generosamente con l'olio, il sale, il succo di limone e la menta tagliata a julienne e lasciarli riposare una decina di minuti in modo che macerino un po'. A questo punto unire il cous cous, mescolare, e aggiungere tanta acqua quanta ne occorre per rendere il tutto abbastanza umido (direi che dovrebbero bastarne 150gr, poi nel caso si può sempre aggiungerne altra) quindi coprire e riporre in frigo per almeno un'oretta. Sgranare con una forchetta e servire.

Nella foto, la versione del tabulé è quella "marito affamato", con aggiunta finale di 200gr di primosale.

Diciamocelo, è una ricetta davvero semplice, di quelle da fare con la mano sinistra nella concitazione mattutina che precede l'uscita per andare a lavorare, ma è fresca, leggera e profuma d'estate.
Della mia estate in Corsica.

martedì 21 giugno 2011

SCENA 1: INTERNO. STUDIO DI BENEDETTA - GIORNO

Nel 1986, quando avevo solo 17 anni, il cinema mi diede alcuni importanti insegnamenti e cambiò la prospettiva della mia vita. Lo fecero due registi, Sidney Pollack e Woody Allen, che già amavo da tempo e che nel tempo avrei continuato ad amare, con due dei loro migliori film: La mia Africa e Hannah e le sue sorelle. Se La mia Africa mi ha insegnato a essere forte, Hannah e le sue sorelle mi ha insegnato a essere ottimista e pensare che, anche quando sembra di aver raschiato ormai il fondo del barile, c'è sempre un modo per reinventarsi la vita.




Hannah e le sue sorelle è un film corale, pieno di subplot, ma di tutte le storie che racconta, quella per la quale ho un vero e proprio debole è la storia di Holly.

Holly è la sorella sfigata della perfettissima Hannah, un'attrice di successo circondata da un manipolo di figli e caratterialmente un po' castrante (non a caso la interpreta Mia Farrow).  Al contrario di quanto accade alla sorella, nella vita di Holly tutto è un disastro. Fa l'attrice anche lei ma non vince mai un'audizione, ha un passato da cocainomane e una vita sentimentale che definire tragica è un blando eufemismo, nonché una situazione economica prossima alla bancarotta. Eppure, per tutta la storia, Holly non si arrende. Non si arrende nonostante le batoste, non si arrende nonostante i giudizi sferzanti della sorella, non si arrende nonostante il tradimento della migliore amica e, alla fine del film, trionfa.

Holly, la povera Holly a cui nessuno dà credito, scopre di avere due talenti da sfruttare: la cucina e la scrittura. Abbattuta per l'ennesima audizione andata male, Holly decide di aprire insieme all'amica April "la gastronomica volante Stanislavskij" (traduzione un po' fantasiosa di "The Stanislavskij Catering Company", ma bisogna perdonarli, erano gli anni '80 e il catering in Italia non era poi così diffuso). Sarà un successo ma avrà vita breve a causa di un'irrimediabile frattura fra Holly e April. Holly dovrà così reinventarsi di nuovo e lo farà chiudendosi in casa a scrivere, di sé, della sua famiglia, delle sue delusioni. Ne verrà fuori uno script per la tv che la farà svoltare e così Holly, da perenne ultima, diventerà l'astro più fulgido del firmamento casalingo (e non solo).

Credo di aver visto Hannah e le sue sorelle una ventina di volte nei soli anni ottanta. Sono andata a New York in pellegrinaggio nei luoghi del film (compresa la meravigliosa Pageant Book & Print Shop che adesso non esiste più), e ho cullato per un bel po' il fortissimo, struggente desiderio di diventare una cuoca-sceneggiatrice o una sceneggiatrice-cuoca.

E così, per coerenza, dopo qualche anno mi sono iscritta ad Architettura.

Ad architettura ci sono rimasta un bel po' ma era sempre più evidente che volevo fare altro così, ancora nel nome di Holly, ho mollato tutto e ho cambiato studi e vita.

Da ormai quindici anni, proprio come Holly, sono una sceneggiatrice.
Una sceneggiatrice che cucina furiosamente, felicemente, scherzosamente, continuamente.
E questa è la "MIA" gastronomica volante Stanislavskij.


In action!