lunedì 9 luglio 2018

je chante



La mitologia familiare vuole che a far nascere in me la passione per il canto sia stata Raffaella Carrà. Lei intonava Macchemu' macchemu' e io, dall'alto dei miei venti mesi di vita, a quanto pare le rubavo la scena. Impossibile fermare una che ha avuto un imprinting del genere, e così io ho continuato a cantare - oserei dire ininterrottamente - per una buona trentina di anni.

Cantavo in bagno la mattina, e poi in auto mentre mi accompagnavano a scuola, e poi a scuola, durante la ricreazione ma spesso anche in classe, quando intonavo un motivetto senza neanche accorgermene. E cantavo il pomeriggio, infilando nel mangiadischi i 45 giri delle Fiabe sonore e infilandoli ancora ogni volta che lui li sputava fuori. Cantavo nella vasca da bagno, durante le cene in cucina con mio fratello. Cantavo di notte, per farmi compagnia quando mi svegliava un brutto sogno e facevo fatica a riaddormentarmi.

Cantavo le arie delle opere liriche con mia nonna, le canzonette (quelle d'amore, quelle allegrette) degli anni '30 e '40 con mio nonno, Ornella Vanoni e Mina con mamma, tutto il repertorio francese con zia Ia, i classici della canzone napoletana con tutti loro, a dimostrazione che pure se non ci fosse stata la Carrà il mio destino era comunque segnato dal dna.

Poi ho scoperto la collezione di 33 giri di papà, che cantava poco (il dna canterino era quello materno) ma ascoltava parecchio. Allora è stata la volta di De André, Dalla, i brasiliani, Burt Bacharach, i Beatles. E il jazz, che è entrato nella mia vita quando avevo sedici anni e non ne è uscito mai più.

Non ricordo neanche come, mi procurai una copia di The real vocal book e giù a cantare standard nel corridoio di casa di mamma per pomeriggi interi. Instancabilmente, continuamente.

Ma piano piano ho smesso. Il perché non so. O forse sì. Se ascolti musica e c'è qualcuno che ti spegne lo stereo, se canti e qualcuno ti chiede di stare zitta, prima o poi ti passa la voglia di farlo. E a me è successo proprio così. Lentamente ho dimenticato il piacere immenso che mi dava cantare, quel bisogno quasi fisico di intonare una canzone ogni volta che un luogo mi rimandava la mia voce amplificata da un'acustica perfetta. Che cosa triste, a ripensarci adesso.

Così quando la mia amica di mille cantate, quella con cui ho intonato di tutto, dalle canzoni dei film di Disney a La gatta cenerentola passando da De Gregori e Joni Mitchell, mi ha proposto di iscrivermi con lei a un corso di coro d'insieme, ho detto subito sì. E di colpo il mercoledì è diventato il giorno più atteso della settimana.

Perché cantare è bello, ma cantare insieme agli altri ti insegna come stare al mondo. Capisci che il tuo canto non ha senso se non si armonizza con quello altrui, che l'effetto della tua voce sommata alle altre dà vita a un tutto che è sicuramente maggiore delle parti che lo compongono. Cantare in coro ti insegna l'umiltà, l'ascolto e la grazia. Tre cose che mi hanno migliorato la vita anche quando me ne sono stata zitta.

E insomma, sabato scorso noi coreuti abbiamo fatto il saggio di fine anno. E insieme alla gioia del cantare tutti insieme c'era la tristezza del separarci fino a settembre. Ho pensato che noi, tutti belli attempatelli, in quel momento non eravamo diversi dai ragazzini che avevano suonato prima di noi, che lo struggimento della separazione era lo stesso. E sono stata felice.

Perciò questa ricetta è per tutti loro, perché l'ho cucinata per la festa di fine anno e ne sono stati entusiasti al punto da continuare a chiedermela anche il giorno dopo e quello dopo ancora. E proprio come le nostre voci, è fatta di ingredienti che mai metteresti insieme, eppure il risultato è talmente buono e confortante da non poterne più fare a meno.


Insalata tiepida di cavolo rosso e feta
dosi per 4 affamati o per 8 persone perbene

1 cavolo rosso da 1 kg
2 cipolle rosse
200 g di feta
70 g di uva passa
50 g di semi di girasole
75 ml di aceto balsamico
2 cucchiaini di zucchero di canna
3 rametti di rosmarino
sale qb
olio evo qb

Mi sono imbattuta in questa ricetta tanti anni fa, esattamente qui. Allora mi piacque l'idea che fosse inclusa nel ricettario di un monastero buddista, e pensai che fosse una di quelle pietanze magiche che hanno il potere di riconciliarti con il mondo. Non mi sbagliavo e, nel tempo, l'ho preparata tante di quelle volte da non aver più bisogno di leggere la lista degli ingredienti o pesare nulla. La so fare a occhio, come accade alle ricette del cuore.

Per prepararla bisogna cominciare dalla fine, ovvero dai semi che cospargerete sull'insalata quando sarà ormai pronta, come fareste con il parmigiano su un bel piatto di pasta al sugo. Metteteli in un tegame capiente (sarà lo stesso nel quale poi cucinerete il cavolo) e fateli tostare per qualche minuto. Aggiungete un pizzico di sale, lo zucchero di canna e mescolate fin quando lo zucchero sarà sciolto e avrà avvolto i semi rendendoli lucenti. Spostate subito i semi in un piattino, distribuiteli in uno strato uniforme e lasciateli da parte. Intanto tritate le cipolle e fatele appassire in quattro cucchiai d'olio. Aggiungete la metà del rosmarino tritato finemente, l'uva passa e infine il cavolo tagliato prima in quarti, privato del torsolo e poi affettato in striscioline di circa mezzo centimetro di spessore. Mescolate bene, aggiustate di sale e fate andare per cinque minuti. A questo punto aggiungete l'aceto balsamico, coprite il tegame per metà con un coperchio e fate cuocere fin quando il liquido si sarà asciugato e il cavolo sarà diventato tenero (nel caso aggiungete un po' d'acqua).

Quando il cavolo si sarà intiepidito, unite la feta sbriciolata e mescolate bene. Servite con le foglioline del rosmarino avanzato e i semi di girasole caramellati (non temete, anche se vi sembreranno un monoblocco riuscirete a spezzettarli facilmente con le mani).


Come sempre, fatemi sapere.

mercoledì 21 giugno 2017

Un nuovo inizio

                                


Me ne sono accorta solo adesso, incredibile. 
Sto scrivendo la puntata di Un Posto Al Sole che andrà in onda il 2 novembre e sono immersa nel mio amato clima autunnale. Il Caffè Vulcano è addobbato con zucche e ragnatele, qualcuno è partito per il ponte, qualcun altro si lamenta per il freddo. 
Insomma, a un certo punto, in preda al disorientamento totale, mi sono trovata a chiedermi che giorno fosse oggi nel mondo reale (secondo me è stata l'ansia da nocillo) e così ho scoperto che è il 21 giugno.

Ora so bene che se la cosa è sfuggita di mente a me figuriamoci a voi, ma si dà il caso che proprio il 21 giugno di sei anni fa io ebbi l'idea malsana di aprire questo blog. Da allora sono successe tantissime cose e la creatura, nonostante io l'abbia trascurata per anni, continua a essere parte integrante della mia identità. 

Io sono la Gastronomica, la mia magione è Casa Gastronomica, la mia cucina è il regno della Gastronomica. O almeno così è stato fino a qualche settimana fa, perché adesso questa non è più la residenza di una food blogger, adesso in questa casa i blogger sono due.

L'avete capito, il consorte - da sempre contrario al mondo social - alla fine ha capitolato e ha deciso di raccontare a un uditorio che auspichiamo sia vasto, i suoi esperimenti di mixologist. Nell'arco di un niente ha smesso di essere il consorte ed è diventato thethirsty.one (lo trovate su instagram e su facebook).

E quindi di colpo la mia cucina non è più la mia cucina, la mia credenza non è più il luogo in cui sono custodite le mie stoviglie, il mio frigorifero non è più di mia esclusiva pertinenza.

Adesso torno dal supermercato carica di cose da surgelare (frutta secca, cereali... io conservo in freezer qualsiasi cosa) e trovo tutto lo spazio occupato da 12 (DODICI!) vaschette del ghiaccio perché egli, l'assetato, sta facendo esperimenti con il ghiaccio ottenuto tramite acqua infusa con le spezie. Trovo una distesa di pomodorini che cuoce lentamente nel forno e immagino una cena a base di bruschette con pomodorini confit, ma invece lui mi spiega che li userà per preparare una sua variante del Bloody Mary. E ormai non c'è scaffale della libreria che, dietro una fila di volumi, non nasconda bicchieri, bicchierini, bicchieroni, boccali, coppe, coppette e flute.

Lo vedi assorto, lo sguardo perso nel vuoto, l'espressione sognante, schiocchi le dita per richiamarlo alla realtà e lui, scusandosi, ti dice che stava immaginando un cocktail da preparare nel fine settimana.  Lo vedi tornare a casa con una grande scatola di cartone e - che ingenuità - pensi ti abbia portato un regalo, ma lui ti fa vedere piastrelle, pezzi di legno e di metallo che gli sembrano perfetti per allestire i set delle sue foto (che poi sono le mie, visto che la fotografa ufficiale sono io).

Lo confesso, è passata solo qualche settimana e già non ne posso più. Vorrei mandare a quel paese lui, i suoi props, i suoi set, quei suoi "Bene non puoi assaggiare, dobbiamo prima fare la foto!" ma poi faccio un passo indietro e mi rendo conto che tutte le assurdità che mi impone gli sono state imposte da me per sei lunghi anni. Che si è ritrovato barattoli di marmellata nell'armadio, assi di legno di recupero sotto al letto, vassoi, piatti, e bicchieri nel pouf del soggiorno (che ormai è inamovibile). Che ha assaggiato intrugli fatti con ingredienti improbabili, che la volta che ho preparato 500 muffin è stato costretto a nutrirsi solo di quelli per giorni e giorni, che si è rassegnato al fatto che i nostri vestiti, di ritorno da un viaggio, siano sempre un po' impiastricciati di tutto il cibo che ficco in valigia. E allora capisco che devo, anzi voglio, perdonargli tutto, perché se quest'avventura gli regalerà anche solo un po' della gioia che ha regalato a me, ne avrà in abbondanza per un bel po' di tempo.

Oggi il consorte ha inaugurato una nuova rubrica sulla sua pagina fb. Si chiama Stasera in tv e funziona in modo molto semplice: una volta a settimana sceglie un film o una serie in programmazione e ci abbina un cocktail. Stasera tocca a Midnight in Paris e al Daiquiri e quindi questa volta la ricetta del post non sarà mia ma sua. Spero che vi piaccia.

Ah, dimenticavo... buon compleanno a me e buon inizio a lui. 
Ho idea che da oggi in poi ne vedrete delle belle.



Per 1 Daiquiri

6 cl di rum bianco
3 cl di succo di lime fresco
1 cucchiaio raso di sciroppo di zucchero

In uno shaker riempito per 3/4 di cubetti di ghiaccio, aggiungete uno dopo l'altro tutti gli ingredienti e agitate con decisione e accuratezza per dieci secondi, quindi filtrate in una coppetta da cocktail già raffreddata. Il cocktail può essere finito con uno spicchio di lime oppure strofinandone la buccia sui bordi e sull'esterno della coppetta per far sì che rilasci i suoi profumati oli essenziali.
Enjoy


venerdì 21 aprile 2017

Il magico potere della dieta


Sono un'accumulatrice seriale. Con l'idea che tutto possa prima o poi tornare utile, conservo qualsiasi cosa. Vecchie riviste, bottoni, scatoline di latta, barattoli. Non arrivo ai famosi spaghi troppo corti per essere usati di Così parlò Bellavista, ma poco ci manca. E così, anno dopo anno, il mio micro studio di quattro metri quadrati si è trasformato in una specie di bazar dove ogni millimetro utile è occupato da una polverosa mercanzia. 

Non so più quante volte mi sono detta che c'era bisogno di una bella riordinata e non so quante volte ho rimandato: troppo noioso, troppo stancante, troppo avvilente, troppo impegnativo emotivamente. A furia di rimandare sono trascorsi quasi dieci anni.

Alla fine è stato lo studio a decidere per me, o meglio, lo ha fatto la mia scrivania. Di punto in bianco si è rifiutata di aprire i suoi tanti cassetti ed elargirne il prezioso (!) contenuto. Insomma, non ho avuto altra scelta che mettermi all'opera. Per due giorni ho visionato ritagli di giornale, vecchi quaderni, nastri stropicciati, videocassette, scatole, scatoline e scatolette, vecchi biglietti di auguri, tappi di champagne (ma quanto abbiamo brindato in questi anni? quanti eventi così memorabili da richiedere di serbare a imperitura memoria quel souvenir abbiamo vissuto? perché diamine non ho allegato a ognuno un bigliettino che mi aiutasse a ricordare?) e alla fine ho riempito tre sacchi condominiali della spazzatura.

Ora, vi prego di credermi, io non ho la sindrome delle Desperate Housewives, non sono una maniaca dell'ordine e Marie Kondo mi sta anche abbastanza sulle scatole, ma devo ammettere che questa impresa improba è stata per molti versi illuminante. Ma lo è stata in un modo del tutto inaspettato.

Più mettevo a posto e più pensavo che in fondo riordinare è come fare la dieta. Sei lì davanti allo specchio la mattina, quando ti vesti, e ti dici che dovresti proprio perdere quei cinque o sei chili (nel mio caso cinquanta o sessanta) ma subito dopo pensi che dovresti cucinare pasti separati per te e il resto della famiglia, che dovresti rinunciare agli inviti a cena fuori (che poi ormai si esce quasi solo per quello), che a breve ci sarà Natale/Pasqua/le vacanze estive o qualsiasi altro evento che renderà quasi impossibile seguire un regime alimentare, e ti fai prendere dall'avvilimento. Troppa fatica anche solo pensare di iniziare, meglio rimandare a un momento più propizio.

Senonché il momento più propizio - come accade tutte le volte che per fare qualcosa si attende il momento propizio - non arriva mai. Però arrivano i vestiti che non abbottonano più, il fiatone non appena si imbocca una salita, il caldo perenne, i problemi allo stomaco. Per farla breve succede che il tuo corpo si ribella proprio come si è ribellata la mia scrivania rifiutandosi di aprire i cassetti.

Allora non è più questione di scelta, allora sei costretta a fare la dieta. E all'inizio la fai controvoglia, pensando che i chili accumulati sono troppi, che non riuscirai a trovare la motivazione giusta, che non avrai la soddisfazione che ti aspetti. Ma poi pian piano accade il miracolo.

Accade che seguendo anche solo poche regole, ma precise e inderogabili, ti accorgi che molte delle tue abitudini erano per l'appunto solo abitudini, retaggi di una vita che ormai non ti appartiene più, e a quel punto te ne sbarazzi senza remore, proprio come io mi sono sbarazzata delle millemila piantine della metro di Londra tenute da parte per ricordo o perché "se poi dovessi tornare a Londra non avrei bisogno di prenderne una nuova" (lo so, sono una pervertita).

Al tempo stesso, eliminando il superfluo, scopri un mucchio di cose che avevi dimenticato di avere, esattamente come io ho ritrovato i vecchi quaderni fitti di appunti di quando ho iniziato a lavorare e la prima stesura delle sceneggiature la scrivevo ancora a mano. 

Io perdendo peso ho ritrovato l'amore per le lunghe passeggiate senza affanno, le scale fatte di corsa senza il dolore alle caviglie che mi costringeva a scendere uno scalino alla volta, il piacere di un vestito che è attillato perché così deve vestire e non perché non ci sto dentro.

E allora mi sono sentita bene e vittoriosa perché se è vero che non conosco quello che si prova quando finalmente si termina una dieta, so bene quello che si prova quando si finisce di rimettere in ordine una stanza. La si guarda e non la si riconosce. O meglio, la si guarda ed è sempre lei ma è più bella, più serena, armoniosa e piena di promesse mantenute.

Ecco, io voglio essere esattamente così.



Crocchette di cavolfiore
dosi per una dozzina di crocchette

Cavolfiore 750 g al netto degli scarti
Uova 2
Parmigiano grattugiato 60 g
Prosciutto di Praga tritato 50 g
Edam grattugiato 30 g
Pangrattato 4 cucchiai
Olio evo 2 cucchiai
Sale e pepe

Questa ricetta è molte cose tutte insieme. È una classica ricetta svuota frigo (come si evince dai 30 g di Edam), è una ricetta aguzza l'ingegno per chi segue una dieta, è una ricetta versatile (cambi salume, cambi formaggi, elimini salumi e formaggi), ma soprattutto è una ricetta tanto deliziosa quanto semplice da preparare. Talmente facile che per spiegarla bastano poche righe.

Lessate il cavolo (potete cuocerlo anche al vapore), mettetelo in una ciotola e schiacciatelo con una forchetta fino a ottenere una sorta di purea grossolana. Quando si sarà raffreddato mescolatelo con le uova, il prosciutto e i formaggi, quindi formate delle palline che poi schiaccerete leggermente e passerete nel pangrattato. Sistemate le crocchette su una teglia rivestita di carta forno, conditele con un filo d'olio e cuocetele in forno preriscaldato a 180° per una cinquantina di minuti.

Tutto qui? Sì, tutto qui.

sabato 28 gennaio 2017

Origini



Se è vero che sono necessarie sette generazioni per fare una schizofrenica, sono certa che ne servano altrettante per fare una cuoca. Nel mio caso, ahimè, ci fermiamo alla quinta generazione e non c'è modo di barare perché nella mia famiglia si sa precisamente chi fu la prima ad allacciarsi un grembiale in vita e mettersi ai fornelli: la nonna Elena, la mia trisavola.

La nonna Elena era la figlia di Salvatore Fusco - il gentiluomo con i favoriti che vedete nel ritratto - principe del foro che fu prima sindaco di Napoli e poi senatore della Repubblica. Abitava con la famiglia in via Filangieri, a Palazzo Fusco, per l'appunto, ed era una delle ragazze da marito più corteggiate di Napoli.

La nonna Elena era una ragazza bella e simpatica, ma aveva un difetto che mandava il padre su tutte le furie: ai salotti della Napoli bene preferiva di gran lunga le cucine. A quell'epoca - badate, stiamo parlando degli anni intorno al 1880 - in cucina ci stavano cuoche e sguattere, non certo le signorine altolocate, ma la nonna Elena era testarda e mantenne le posizioni.

La passione delle donne della mia famiglia per le cucinelle nasce da lì, dalla caparbietà della nonna Elena. Nella storia familiare rimangono leggendarie le sue gelatine di frutta, le sue palle di tagliolini, la galantina e il sartù di riso, che la nonna Elena imbottiva con la genovese.

Lo stampo del sartù - insieme al mortaio di marmo e alla pesciera, che nella sua carriera di caccavella non vide mai pesce ma sempre e soltanto galantine - è stato tramandato di madre in figlia fino a giungere a me, accompagnato da relativa ricetta e dosi collaudate ad hoc, e io ve ne faccio omaggio perché, ve lo assicuro, questo sartù è un'opera d'arte e in quanto tale va condiviso.

Rimboccatevi le maniche, ché l'impresa è impegnativa.


Sartù di riso ripieno di genovese - dosi per 8 ingordi
Per la genovese
500 g di polpa di colardella
100 g di pancetta tesa
1 mazzetto per il soffritto (sedano e carota)
1,5 kg di cipolle bionde
100 ml olio
50 gr burro
Sale, pepe
1 bicchiere di Marsala secco

Per le polpettine

La carne della genovese
1 uovo
1 pugno di mollica di pane bagnata e strizzata
1 pugno di parmigiano
Olio di arachidi

Per il riso
750 g riso Arborio
4 uova intere
100 g burro
100 g parmigiano

Per il ripieno

250 g fiordilatte tagliato a cubetti (compratelo il giorno prima e tenetelo in frigo)
250 g pisellini lessati

Per lo stampo

burro
pangrattato

Il mio stampo, quello ereditato dalla nonna Elena, è uno stampo scanalato per budino di queste dimensioni: diametro inferiore 18 cm, diametro superiore 26 cm, altezza 8 cm.

Cominciamo dalla genovese. 
Munitevi di una candela, anzi di un paio, sistematele accese sul piano da lavoro come fosse un altare, e procedete tagliando le cipolle prima a metà e poi a fettine. Non sarà un lavoro divertente, ma almeno non piangerete. Tritate poi il sedano (quello bello verde del mazzetto), la carota e la pancetta. Sistemate la carne sul fondo di una pentola capiente (meglio sarebbe una pentola di coccio, ma non sottilizziamo), aggiungere, l’olio e il burro (meglio sarebbe usare lo strutto, ma non sottilizziamo), la pancetta, la cipolla, gli odori. Salate e fate cuocere a fiamma allegrotta, fin quando le cipolle non si saranno ridotte a un quarto (devono diventare una crema, ci vorranno almeno un paio d’ore). 



A questo punto armatevi di pazienza e cominciate a tirare il sugo aggiungendo a poco a poco il Marsala e aspettando che sia evaporato prima di aggiungerne altro. La genovese tenderà ad attaccarsi sul fondo, e il vostro compito sarà “scozzicarla” con un cucchiaio di legno prima che si bruci. Quando il Marsala sarà finito e le cipolle si saranno ridotte a una crema di un marrone intenso, la genovese sarà pronta, anche se il vostro lavoro non sarà ancora giunto a termine. Prendete un caro vecchio passaverdure e passate la genovese. In questo caso è bene sottilizzare e usare proprio un passaverdure, perché se è vero che il minipimer renderebbe l’operazione semplice e rapida, è altrettanto vero che farebbe inglobare alla genovese molta aria, rovinandone il colore e, secondo me, anche il sapore.


Ora che la genovese è pronta si può passare alla preparazione delle polpettine, operazione un po’ noiosa che, nella mia famiglia, vedeva le donne di casa sedute attorno al tavolo a chiacchierare mentre la portavano a termine, per rendere il compito un po’ più gradevole. Per fare le polpettine dovete innanzitutto passare la polpa di colardella al tritacarne per un paio di volte, oppure al mixer a intermittenza per una quarantina di secondi. Dopodiché basta procedere mescolando tutti gli altri ingredienti come si fa per le normali polpette. 

La vera difficoltà, se difficoltà si può chiamare, è formare le polpettine della stessa dimensione (io porziono l’impasto usando uno scavino) e fare in modo che l’impasto non si attacchi alle mani. Per evitarlo, aiuta molto inumidirsele di tanto in tanto con dell’acqua fredda. Friggete le polpettine in olio di arachidi fin quando saranno ben dorate. Tenete conto che, essendo già scurette in partenza, dovranno diventare di un marrone intenso. Mettetele poi da parte in un nascondiglio sicuro, è provato che tendono a sparire.


Cuocete il riso in 2,25 l di acqua salata precedentemente portata a bollore. Quando l’acqua si sarà asciugata e il riso sarà ben cotto, mantecatelo con il burro e il parmigiano. Aggiungete poi le quattro uova sbattute, mescolate bene e rovesciate il riso su un piano di marmo (non sottilizziamo, va bene anche un’altra superficie rivestita di carta argentata). Stendete il riso in uno strato uniforme di circa 1 cm di spessore, e aspettate che sia ben freddo.

Nel frattempo riscaldate la genovese lasciandovi sobbollire le polpettine e i piselli, di modo che si insaporiscano, e poi spegnete il fuoco e lasciate intiepidire.


Imburrate lo stampo con cura, poi mettetelo dieci minuti nel freezer e ripetete l’operazione, per poi rivestirlo di pangrattato. A questo punto bisogna cominciare a tappezzare lo stampo con il riso. Prendetene delle piccole porzioni fra le mani, cercando di mantenerne lo spessore, e sistematele dapprima sul fondo, poi sui bordi dello stampo, stando attenti a farlo aderire bene. 



Quando avrete concluso l’operazione, versate l’imbottitura - alla quale avrete aggiunto il fiordilatte - nel piccolo cratere che si è venuto a formare, e ricoprite il tutto con il riso avanzato, procedendo come avete fatto in precedenza, ma facendo attenzione che i bordi siano ben saldati. Spolverate la superficie del sartù con il pangrattato, e sistematevi qualche fiocchetto di burro, quindi cuocete in forno preriscaldato a 180° per 45 minuti. 




Quando il sartù sarà cotto, passate un coltello lungo i bordi della teglia per assicurarvi che il riso si stacchi bene, poi abbiate la pazienza di aspettare un quarto d’ora, in modo che il tutto si assesti per bene, e sformate, magari dando qualche colpetto deciso sul fondo della teglia. Ultima raccomandazione, pazientate. Il sartù dà il meglio di sé quando è caldo, ma non bollente.

giovedì 22 dicembre 2016

Storie di ordinaria anarchia



In una delle mie molte vite sono stata una ceramista. E a noi cosa importa, starete pensando. E ancora di più, penserete, cosa c'entra questo incipit al sapor di caolino con la foto di una decorazione natalizia? Datemi il tempo e ci arriviamo.

In una delle mie molte vite sono stata una ceramista, dicevo. Avevo cominciato per gioco, trascinata da un'amica, e in men che non si dica ero stata travolta da un universo che aveva a che fare molto più col cibo che con la ceramica. Bisognava impastare il caolino come se fosse una pizza, prenderlo a matterellate per eliminare le bolle d'aria come se fosse l'impasto degli scauratielli cilentani della mia infanzia, stenderlo col matterello come se fosse la frolla per una crostata. Se poi si passava a modellare la creta per decorare un vaso, i soggetti più frequenti erano succulenti limoni della costiera, voluttuosi tralci d'uva con tanto di pampini e viticci, in qualche caso perfino cipolle e carciofi.

Le lezioni del mercoledì pomeriggio erano popolate da signore di ogni età. C'eravamo io, Carla, Alba e Sabrina, tutte ancora alle prese con gli studi universitari, ma c'erano anche signore ben più grandi di noi, forse dell'età delle nostre mamme, che trasformavano quei pomeriggi in una sorta di riunione di un club. Si raccontavano a vicenda delle loro famiglie, delle figlie in procinto di sposarsi, degli abbonamenti a teatro e delle partite a Burraco, il tutto continuando a plasmare frutta e ortaggi con la maestria acquisita grazie ad anni e anni di pratica.

Quando frequentavo il laboratorio già da un po', s'iscrisse ai corsi una nuova allieva, la signora F.
Era una bella donna sulla cinquantina, elegante e riservata. Bastarono poche lezioni per capire che della ceramica non le importasse granché. Modellava senza entusiasmo, senza curiosità. Non le interessava neanche svincolarsi dall'universo vegetale proposto dalla scuola, come da tempo avevamo fatto noi mettendo in atto una piccola ribellione. Ci vollero un paio di mesi perché venisse emessa la sentenza definitiva: la signora F non sarebbe mai diventata una brava ceramista. 

Naturalmente la nostra maestra non poteva tollerare una cosa del genere. Non avrebbe sopportato che qualcuno associasse la sua scuola agli orrendi manufatti della signora F. Così le affiancò un paio di insegnanti di supporto che la seguivano con pazienza (facendole però perdere la sua) e le mostravano come procedere ripetendole il leit motiv delle nostre lezioni: lavorare la ceramica è come cucinare.

Evidentemente la signora F che, lo capimmo dopo, veniva a ceramica solo per sottrarsi almeno una volta alla settimana ai pomeriggi con l'odiata suocera, a un certo punto non ne poté più. Per dimostrare che, lungi dall'essere imperizia, il suo era disinteresse bello e buono, cominciò a presentarsi a lezione con dei doni culinari. 

Che fossero dolci o rustiche, le creazioni gastronomiche della signora F erano sempre sorprendenti, bellissime da vedersi e dal sapore celestiale. In breve comparvero taccuini, foglietti per gli appunti, tovagliolini di carta e, ogni mercoledì pomeriggio, una buona mezz'ora veniva dedicata alla trascrizione delle mirabolanti ricette della signora F.

Erano ricette particolari - anarchiche, secondo la maestra di ceramica che mal tollerava il vedersi spodestata - che prevedevano sempre qualcosa di insolito: la caprese fatta con due impasti separati che andavano miscelati solo alla fine, il pan canasta cotto in una buatta di pelati da 5 kg, gli struffoli soffiati, talmente buoni che le chiedevamo di prepararli anche in piena estate.

Da allora sono passati più di vent'anni e sono cambiate tante cose, talmente tante che fa perfino impressione elencarle tutte, ma c'è una cosa che è rimasta la stessa e che ogni anno, di questi tempi, mi riporta a quei pomeriggi alla soffitta: gli struffoli anarchici della signora F, che a casa mia non smettiamo di benedire.


Struffoli (anarchici)

farina 00 500 g
zucchero 50 g
burro morbido 25 g
uova 5
brandy 2 cucchiai
la scorza grattugiata di 1 arancia e 1 limone
sale 1 pizzico
olio di arachidi per la frittura
miele millefiori 300 g
zucchero 100 g
acqua 1 mestolino
canditi misti 200 g
arancia 1
limone 1
diavolilli

Questa ricetta ha due trucchi fondamentali, uno riguarda la preparazione, la ricetta è quella infallibile di Lejla Mancusi Sorrentino, e uno la fattura.
Cominciate con il disporre la farina a fontana e aggiungete lo zucchero, la buccia grattugiata del limone e dell’arancia, il pizzico di sale, il burro morbido e – e qui c’è il primo trucco – i tuorli delle uova sbattuti e mescolati con i bianchi montati a neve. 

Mescolate tutto dapprima con una forchetta poi, quando l’impasto diventerà abbastanza compatto da poter essere maneggiato, lavoratelo a mano ripiegandolo più volte su se stesso e ruotandolo di 90° fra una piega e l’altra. Lavorate a lungo in modo da ottenere un impasto liscio ed elastico che lascerete poi riposare, coperto, per una trentina di minuti. 

E passiamo al secondo trucco. 
Chiunque vi dirà che per fare gli struffoli bisogna formare dei cilindretti d’impasto da cui ricavare delle palline, ma la signora F, che degli struffoli era la regina, stendeva invece la pasta come per fare delle lasagne (in fondo, l’impasto è molto simile a quello della pasta all’uovo), ne ricavava poi delle pappardelle e infine dei quadrotti un po’ più grandi di quelli che siamo abituati a mangiare in brodo quando fa davvero freddo. 

Se avete una macchina per la pasta, tipo la Marcato o la Imperia, l’operazione vi risulterà ancora più semplice. Non dovrete far altro che tagliare delle fette d’impasto di un centimetro di spessore, passarle per tre volte nella macchina mettendo la ghiera su 1, poi una volta con la ghiera sul 2 e una volta con la ghiera sul 4. Otterrete così in pochissimo tempo una sfoglia sottile e uniforme che poi non dovrete far altro che tagliare come spiegato in precedenza. 

A questo punto passate alla frittura. Mettete a scaldare l’olio e di tanto in tanto immergetevi uno stecchino in legno. L’olio sarà a temperatura quando dallo stecchino usciranno delle piccole bolle. 
Mettete i quadretti di pasta in un colino di acciaio e lasciateli scivolare lentamente nell’olio. Vedrete che in un attimo si gonfieranno diventando tondeggianti. Cuoceteli finché non saranno dorati quindi metteteli ad asciugare su della carta paglia stando attenti a non sovrapporli. 

Passiamo adesso alla preparazione della copertura dolce. 
Mettete a scaldare in una pentola con il fondo in acciaio il miele, lo zucchero, l’acqua, i canditi a pezzetti e le scorze degli agrumi a filetti (avete comprato lo zester?). Quando il liquido comincia a spumeggiare, spegnete e versateci gli struffoli per poi mescolare a lungo, di modo che risultino tutti uniformemente ricoperti. 

Sistemate gli struffoli in un piatto da portata, date loro una forma piramidale aiutandovi, se è il caso, con le mani inumidite e decorateli con i diavolilli.

Ah, dimenticavo... buon Natale!

mercoledì 2 novembre 2016

The long and winding road


L'altro giorno ho incontrato una persona che non vedevo da una quindicina di anni. È stata lei a notarmi e a venirmi incontro con un sorriso da rimpatriata. Mi ha salutata con affetto benché la nostra sia sempre stata poco più di una conoscenza estiva, ma subito l'occhio l'è corso alla mia mano sinistra per vedere se ci fosse ancora la fede.

Apparentemente rassicurata sulle sorti del mio matrimonio dalla presenza della suddetta, ha poi bypassato qualsiasi convenevole per sottopormi a una specie di interrogatorio. E figli ne hai? Vabbuo', ma ci proverai ancora, no? Lo sai che io ho avuto un altro bambino cinque anni fa? E invece hai mai pensato di farti l'operazione per dimagrire? Fossi in te mi fionderei. 

Mi sembra superfluo sottolineare quanto questa donna sia sprovvista di tatto e quanta poca considerazione avrei dovuto riservarle, però mentre rispondevo alle sue domande con una sequela di no, sentivo crescere in me la rabbia impotente che mi accompagna da quando ero ragazzina. Perché posso essere brava nel mio lavoro, posso condurre con mani salde la mia vita, posso amare ed essere amata, ma i parametri secondo i quali verrò giudicata saranno sempre e comunque la mia capacità (o incapacità) di riprodurmi e il mio aspetto fisico. 

Questo dover giustificare il mio stare al mondo è stata una fatica in più. Ho dovuto esercitare con costanza l'auto ironia per depotenziare il sarcasmo degli altri, imparare a mettere le mani avanti con affermazioni apodittiche per arginare il bisogno impellente di dispensare consigli dal quale chiunque, perfino persone conosciute da cinque minuti, si sentiva travolto in mia presenza.

Mi si guarda con biasimo perché sono una grande obesa e se lo sono è perché evidentemente non ho voluto risolvere il problema.

Lo pensa perfino mio marito, duole ammetterlo, convinto inconsciamente che io non dimagrisca per fargli dispetto. Vive, esattamente come lo facevano i miei genitori, il mio essere grassa come una forma di disamore nei suoi confronti senza essere neanche sfiorato dal sospetto che l'unica forma di disamore sia verso me stessa.

D'altra parte è abbastanza tipico. Il fatto che io sia così grassa è una cosa che dovrebbe essere intima, un disagio personale; dopotutto sono io che mi confronto tutti i giorni con le articolazioni che scricchiolano, con l'affanno, con la difficoltà di vestirmi come mi piacerebbe, con i segni dei braccioli delle sedie impressi sulle cosce. Invece no. Invece lo spazio fisico che occupo nel mondo sembra essere un problema soprattutto per gli altri. Si sentono a disagio in mia presenza come lo sono davanti a una persona portatrice di handicap. Mi insultano se sono rozzi e ignoranti, mi guardano con disappunto se sono acculturati.

Molti vogliono salvarmi senza accorgersi della loro miopia.
Tizio si è operato e adesso guarda come sta dimagrendo, perché non lo fai pure tu?

Certo, loro guardano tizio, vedono che sta perdendo peso e tanto basta. Ma lo guardano davvero? Si accorgono che la maggior parte delle calorie che introduce nel suo corpo sono quelle degli alcolici? Si accorgono che la compulsione è rimasta la stessa? Si accorgono che questa persona non sta facendo alcun passo avanti, anzi sta andando indietro?

Sono sicura di no. In fondo lo so per esperienza personale, è difficile comprendere gli obesi.

Allora oggi che sono arrabbiata lo spiego qui, sperando che sia una volta per tutte.

Io non sto cercando di capire come dimagrire, sto cercando di imparare a volermi bene, a prendermi cura di me.

È più difficile di qualsiasi cosa abbia fatto prima. Più difficile del chiudermi sei mesi in ospedale per dimagrire, più difficile dell'affermarmi professionalmente, più difficile del trovare l'amore, più difficile dell'accettare l'idea di non avere figli, più difficile del sopravvivere alla delusione e alla vergogna di aver perso tanti chili tante volte e poi essere tornata più grassa di prima.

Ma va bene così.


Porridge di crusca d'avena

crusca d'avena 50 g
latte 250 g
miele 1 ts
frutti di bosco 50 g
semi e frutta secca 30 g

Da un paio di anni questa è diventata la mia colazione. L'ho scelta perché avevo voglia di iniziare le mie giornate con qualcosa di più sano, ma al primo assaggio è stato amore. Non so se esista una memoria genetica del cibo, ma quando mangio il porridge ho l'impressione che il mio sangue danese scorra nelle vene con maggior vigore, e mi sento a casa.

Per prepararlo ci vogliono non più di cinque minuti, state tranquilli. Si tratta di mettere la crusca in un pentolino, aggiungere il latte - vale tutto: latte vaccino, d'avena, di riso... vale perfino l'acqua - e portare a bollore tenendo la fiamma bassa. Una volta che il composto comincia a borbottare, continuate la cottura per un paio di minuti quindi aggiungete il miele, mescolate bene e trasferite il tutto in una ciotola. Guarnite con i frutti di bosco, i semi e la frutta secca - anche in questo caso vale tutto, sbizzarritevi secondo il vostro gusto - e il gioco è fatto.

Come sempre, fatemi sapere. E sì, valgono anche gli insulti.

martedì 25 ottobre 2016

Due anni vissuti pericolosamente




Mi ricordo di quando, anni fa, Sigrid Verbert mise al mondo la sua primogenita, Lena. Io facevo un rapido passaggio sul suo blog quasi ogni giorno sperando di trovare un post nuovo, ma niente. La foto che ritraeva la cesta di limoni della Festa a Vico rimase in home per mesi. 

Ecco, qui da noi è successa più o meno la stessa cosa. Solo che la cicogna che è approdata a casa nostra - vuoi a causa del maltempo, vuoi perché forse assomigliava un po' a questa qui - invece di portarci un pargolo ci ha portato mia nonna, che ormai va per il secolo.

Tutto è cominciato il 15 settembre del 2014, con una telefonata ricevuta alle sette meno un quarto del mattino. Mentre io cercavo di scongiurare l'infarto e maledicevo per l'ennesima volta il genio che ha progettato gli impianti della magione dimenticando di mettere una presa del telefono in camera da letto, il consorte si è precipitato in soggiorno a recuperare il cordless per poi passarmelo con la faccia da raccomandata dell'equitalia.

- Bene, è tua nonna. Guarda che sta piangendo.

Mia nonna. Quella che ha affrontato la morte del marito senza versare una lacrima. Quella che ha affrontato ogni malanno con invidiabile filosofia, convinta com'è che le malattie si dividano in quelle che passano da sole e quelle che non passano neanche con le medicine. Mia nonna. In singhiozzi.

- Nonna, che succede?
- Bennussi, io non ci voglio andare alla casa di riposo. Ti prego, posso venire da voi? Prometto che non vi do fastidio... dormo sul divano.

Insomma, questo succedeva la mattina, e dieci ore dopo la nonna era già da noi recando in dote un poggiapiedi, un tavolinetto, un vaso da fiori, e una badante cingalese di nome Acci.

Inutile dire che da quel momento la nostra vita non è stata più la stessa. 

La prima impresa, titanica, è stata convincere la nonna che, se davvero voleva provare a non dare fastidio, l'unico posto dove non era il caso di addormentarsi era proprio il famoso divano, unico esemplare presente in casa, collocato nell'unica stanza in cui è presente l'unico televisore, e dove il consorte ed io siamo soliti trascorrere la serata. La seconda, convincerla che a breve avremmo dovuto cambiare casa, dato che qui c'è una sola camera da letto e lei non avrebbe certo potuto continuare ad arrangiarsi sulla brandina che incuneiamo a viva forza nel mio microscopico studio ogni sera.  

- Bennussi', senti a nonna tua, voi questa casa l'amate tanto, non fate la sciocchezza di levarvela. Tanto, parliamoci francamente, io ho già novantotto anni. Quanti altri ne potrò campare? Quattro, cinque...

E così, con queste premesse, è partita la nostra avventura. Ma proprio avventura con la a maiuscola, perché nulla di quello che poi è accaduto rientrava nelle nostre ipotesi della prima ora, e di sicuro neanche in quelle della nonna.

Da noi la nonna ha scoperto il mondo. Abituata com'era a passare le giornate da sola, con l'unica compagnia della tv generalista che, parole sue, trasmette solo roba per vecchi, si è trovata catapultata nel luogo delle mille possibilità. Un vorrei tanto rivedere My fair lady buttato lì per caso durante il pranzo, si trasformava d'incanto nel guardarlo effettivamente nel primo pomeriggio.

Estsiata da quel prodigio, ha voluto conoscerne ogni segreto. Così, mentre io maledico ogni aggiornamento dell'IOS perché mi pesa abituarmi alle novità (scorro ancora il dito sul display per accedere alla schermata home), lei ha fatto amicizia con i download, lo streaming, le webradio, gli hard-disk esterni, le chiavette usb.
La sua passione però è l'iPad. Inizialmente denominato "il cosariello tuo", è poi diventato l'Aipan e infine, quando le ho fatto presente che ci voleva la D, il DAIPAN.

Da lì poi è stata tutta una corsa verso il progresso tecnologico: facebook, instagram, i selfie, shazam. Nel giro di qualche mese mia nonna, con le sue uscite fulminanti, la sua ironia, la sua voglia di vivere, la sua passione per il calcio, per gli uomini belli, per il cibo buono, per il whisky e il cioccolato, è diventata una celebrità del web. Mia nonna è diventata La nonna, un essere magnifico di cui io, umile biografa, narro le gesta con cadenza quasi quotidiana su facebook, cercando di restituire almeno un po' del fascino che questa donna straordinaria possiede.

Quindi è questo che è successo, è per questo che non c'è più stato tempo per il blog: sono ridiventata nipote a tempo pieno come quando ero bambina e le mie ore più belle erano quelle trascorse con la nonna.

Domani la mia nonna compie 99 anni o meglio, come dice lei, mette il piede nei 100. L'abbiamo festeggiata sabato scorso con un pranzo a sorpresa che prevedeva qualsiasi cosa, dalle crespelle besciamella e piselli alle quiche, alla zucca di Ottolenghi e alle polpettine di maiale all'uva bianca. La nonna ha gradito ogni portata e ha spento le candeline circondata da figli, nipoti e pronipoti, una piccola folla osannante. Però domani, domani che è davvero la sua festa, mi ha chiesto qualcosa di semplice perché alla sua età non è il caso di fare stravizi e così, nonostante il clima sia molto più estivo che autunnale, le preparerò il minestrone di casa sua, quello che ho amato fin dalla tenera età perché, come dice mia nonna, in fondo io sono sempre stata più vecchiarella di lei.




Il minestrone di mia nonna
per due persone

1 cipolla
2 belle coste di sedano
2 carote
2 patate medie
1/2 cespo di scarola
60 g di riso
2 cucchiai di olio
sale

Questo, l'avete capito, è uno dei piatti della mia infanzia. Confortante come sanno esserlo solo i cibi esenti da sensi di colpa e che portano con sé i primi freddi, i colori delle foglie cadute e le giornate che si accorciano. Mia nonna è sempre stata una donna sbrigativa. Nella pur vasta aneddotica familiare, spicca il racconto di quando in meno di un minuto riparò la fodera dei pantaloni di mio nonno, scucita all'altezza delle ginocchia, scartando immediatamente l'ipotesi di rammendarla e optando invece per un rapido strappo, tipo ceretta.

Questo minestrone, di esecuzione elementare, rispecchia in pieno la sua filosofia del poca spesa molta resa. Procedete così: lavate le verdure, quindi tritate la cipolla e fatela soffriggere insieme all'olio in una pentola capiente facendo attenzione che appassisca senza bruciare. Aggiungete il sedano, le carote e le patate tutte tagliate a tocchetti di media grandezza (non state e scimunirvi, direbbe la nonna). Lasciate rosolare per qualche attimo quindi unite la scarola tagliata in striscioline sottili e salate. Coprite la pentola, attendete qualche attimo che la scarola appassisca e aggiungete tanta acqua quanta è necessaria a coprire di un paio di dita le verdure. Quando le patate saranno morbide ma non ancora disfatte, calate il riso e portate a cottura aggiungendo, se è il caso, tanta acqua quanta è necessaria per ottenere una minestra brodosa. Servite con abbondante parmigiano e, se vi piace, un po' di pepe nero appena macinato.

Ah, dimenticavo... tanti saluti dalla nonna!