Dopo una cerimonia nuziale e un ricevimento sui quali più che un post bisognerebbe scrivere un libro, tanto furono tragicomici, io e il novello consorte - ma stagionato convivente, visto che ci sposammo allo scoccare del nostro quarto anno di vita insieme - partimmo per il viaggio di nozze alla volta di New York. Io, che c'ero già stata, l'avevo messo in guardia perché in genere New York è una città che si dà un po' per scontata - ci è così familiare con il suo skyline arcinoto, con i suoi scorci visti e rivisti in centinaia di film e serial, che la sentiamo un po' nostra ancor prima di metterci piede - ma riserva invece moltissime sorprese, del tutto inaspettate.
Inaspettatamente, New York è una città esotica, intrisa di odori di cibo e di spezie che pervadono l'aria al punto che se ne trovano tracce anche se la si annusa dal trentasettesimo piano di un grattacielo. E poi è tanta, troppa. Lo sguardo non ha un attimo di tregua perché, anche se ne conosci l'architettura a menadito, tutto è così diverso da come credevi che fosse, che ne rimani inevitabilmente disorientato. I grattacieli grattano effettivamente il cielo, per strada ci sono effettivamente quasi solo taxi gialli, i newyorkesi hanno effettivamente una percezione della temperatura che varia da individuo a individuo con escursioni termiche non da poco, visto che alcuni sembrano pronti per andare a fare surf e altri per andare a sciare. Tutto è effettivamente più grande, effettivamente con una fragola ci fai una crostata, con un pomodoro un'insalata per 4 persone, con un panino con l'hamburger ti sfami per una settimana. Effettivamente l'acqua è freddissima perché il bicchiere è effettivamente riempito con un dito di liquido e decine di cubetti di ghiaccio. E tu effettivamente lo sapevi che era così, ma non avresti mai immaginato che lo fosse fino a quel punto. Insomma, ammettiamolo - almeno per i primi giorni - New York ti sembra Hellzapoppin'.
Il consorte era stato avvertito, ma naturalmente non mi aveva creduto. Era partito spavaldo, pensando che le mie fossero tutte esagerazioni, eppure già all'aeroporto JFK si era dovuto ricredere. Poverino, aveva immaginato di vivere la grande mela con la grinta narcisistica e un po' distruttiva del protagonista di un romanzo di Bret Easton Ellis e invece si trovava nel bel mezzo di Totò, Peppino e la malafemmina. Mi teneva per mano e si guardava intorno con la stessa aria falsamente sicura di sé che ostentava Totò al suo arrivo a Milano e io, nelle vesti di Peppino, non ero da meno. Vergognandoci come ladri, salimmo sulla limousine che c'era venuta a prendere (nonostante io avessi prenotato una normale berlina) e ci facemmo portare al Waldorf Astoria che il consorte, vittima di una visione reiterata de Lo zappatore con Mario Merola, si ostinava a chiamare il Uandaffastòr. Cenammo in camera con club sandwich e apple pie e poi, distrutti, ci mettemmo a letto. Un lettone king size morbido e comodissimo, di quelli che così li fanno veramente solo in America. Già pregustavo il sonno profondo che, mi auguravo, mi avrebbe fatto smaltire il jet lag e mi avrebbe messa nella predisposizione d'animo giusta per familiarizzare con New York quando il consorte, stiracchiandosi fra le lenzuola, fece il seguente commento: "In questo materasso si sprofonda. Sembra il letto di Johnny Depp in Nightmare". Naturalmente lui si addormentò subito e io invece non chiusi occhio.
Non vi stupirà sapere che io e il consorte rischiammo il divorzio durante quel viaggio perché, come mai prima di allora, a New York emersero con violenza tutti i tratti caratteriali che ci rendono inconciliabili. Io sono pigra per quanto lui è iperattivo, io sono curiosa per quanto lui è noncurante, io sono precisa per quanto lui è distratto, io sono decisa per quanto lui è indeciso. Sono convinta che rimanemmo insieme per un unico motivo: io, vittima del mio perfezionismo e del mio diploma in americano, non riuscivo a spiccicare una parola per timore di sparare qualche vongola, ma capivo perfettamente quello che mi dicevano; il consorte invece parlava anche con i cobblestone (quando ne trovava uno, ché a New York ormai sono pochissime le strade con l'acciottolato), ma non capiva assolutamente nulla di quello che gli dicevano. Insomma, nella nostra imperfezione, eravamo indispensabili l'uno all'altra. Avevamo messo a punto una tecnica fantastica che ci salvaguardava dalle figuracce: cercavamo di fare tutto - prenotazioni, ordinazioni, acquisti - al telefono. Il consorte parlava poi, non appena il suo interlocutore cominciava a rispondergli, passava la cornetta a me, che traducevo in simultanea e poi gli ripassavo il telefono. Altro che i fratelli Caponi alle prese con la stesura della lettera alla malafemmina!
A New York non c'era nulla che ci mettesse d'accordo. Il consorte voleva passare le serate nei locali alla moda a bere e ballare e io - che palla vivente! - a sentire il jazz. Il consorte voleva fare shopping e io - ma che palle! - volevo andare nei musei. Facemmo tutto; io accontentavo lui e lui accontentava me, perché da soli non ce la saremmo cavata, anche se la giornata dei saldi da Macy's mise veramente a durissima prova la mia salute psicofisica. L'unica eccezione a questa apoteosi di incompatibilità, fu sorprendentemente un ristorante: The River Cafè.
Al River Cafè, finalmente New York diventa quella che avresti voluto, a prescindere da ciò che desideri. A pelo d'acqua, con la città - ora riconoscibile - che ti si srotola davanti, il profumo dei fiori, le luci basse e la musica del pianoforte in sottofondo, potresti essere in un film di Woody Allen o in una puntata di Sex & the City, e ti guardi attorno per vedere se per caso a un tavolino un po' in disparte non ci siano effettivamente Carrie e Mister Big. Ma potresti anche essere in un romanzo di Bret Easton Ellis, mentre fai tintinnare il ghiaccio nel tuo vodka tonic e rimiri una fauna locale decisamente sopra la media, con l'occhio esperto del predatore. Al River Cafè potresti mangiare e bere malissimo, e non te ne importerebbe, ma invece si mangia e si beve divinamente, e basta andarci una volta per essere definitivamente conquistati. Lo ammetto, il mio matrimonio è salvo grazie a questo ristorante che, in un attimo, ci fece riconciliare non solo con la città, ma anche con la vita. Andateci, se doveste trovarvi a passare di là.
LA VELLUTATA DI ZUCCA DEL RIVER CAFÈ
Per 20 shottini, 6 porzioni da gourmet o 4 porzioni da golosi affamati
1 kg di zucca già priva di semi e scorza
500 g di patate già sbucciate
3 cipolle belle grandi (meglio se bianche)
sale, pepe, noce moscata
olio EVO
100 g di panna
semi di zucca tostati per la guarnizione (da non sottovalutare perché costituiscono anche un piacevole elemento croccante)
Naturalmente anche in quel luogo di assoluta perfezione che è il River Café, io e il consorte ci distinguemmo per imbranataggine e tendenza congenita alla gaffe. In attesa che il nostro tavolo a ridosso della vetrata si liberasse, ci avevano fatto accomodare a un altro tavolo in prossimità del bar, dove ci avevano servito gli aperitivi. A un certo punto, senza che noi avessimo chiesto niente, si presenta un cameriere con due tazzine da caffè su un vassoio. Il consorte, sobillato da me, si affretta a chiarire che noi non avevamo ordinato nessun caffè anzi, dovevamo ancora cenare ma il cameriere, glissando compassionevolmente, spiegò che quelle tazzine erano un omaggio dello chef, un amuse bouche per ingannare lo stomaco nell'attesa che il nostro tavolo fosse pronto. Dentro le tazzine c'era questa vellutata di zucca, meravigliosamente morbida e saporita ma non aggressiva, confortante, familiare eppure sofisticata, sorprendentemente dolce ma stuzzicante nel contrasto con i semi salati che ne guarnivano la superficie. Un sorso di perfezione che su di me, anche a distanza di anni, continua ad avere lo stesso effetto che, immagino, il Cynar aveva su Ernesto Calindri.
Farla è di una semplicità disarmante. Fate un trito con le cipolle e fatele dorare in un filo d'olio, aggiungete la zucca a pezzi, le patate a tocchetti e, dopo averle fatte rosolare qualche minuto, copritele a filo con dell'acqua fredda. Salate, pepate e lasciate cuocere fin quando patate e zucca non saranno ben morbide. Frullate con il minipimer, grattugiateci la noce moscata, aggiungete la panna e mescolate bene con una frusta. Servite la crema ben calda, guarnendola con i semi di zucca.
Per concludere, vorrei rassicurarvi sulle sorti del mio matrimonio. Benché provati dal viaggio di nozze, siamo rimasti insieme e quando, ancora oggi, mi domando come facciano due persone così diverse a dividersi la vita, mi basta rileggere Lui e io, un racconto di Natalia Ginzburg che fa parte della raccolta Le piccole virtù.
È incredibile come una sbirciatina nella vita degli altri renda molto più comprensibile la nostra.
Inaspettatamente, New York è una città esotica, intrisa di odori di cibo e di spezie che pervadono l'aria al punto che se ne trovano tracce anche se la si annusa dal trentasettesimo piano di un grattacielo. E poi è tanta, troppa. Lo sguardo non ha un attimo di tregua perché, anche se ne conosci l'architettura a menadito, tutto è così diverso da come credevi che fosse, che ne rimani inevitabilmente disorientato. I grattacieli grattano effettivamente il cielo, per strada ci sono effettivamente quasi solo taxi gialli, i newyorkesi hanno effettivamente una percezione della temperatura che varia da individuo a individuo con escursioni termiche non da poco, visto che alcuni sembrano pronti per andare a fare surf e altri per andare a sciare. Tutto è effettivamente più grande, effettivamente con una fragola ci fai una crostata, con un pomodoro un'insalata per 4 persone, con un panino con l'hamburger ti sfami per una settimana. Effettivamente l'acqua è freddissima perché il bicchiere è effettivamente riempito con un dito di liquido e decine di cubetti di ghiaccio. E tu effettivamente lo sapevi che era così, ma non avresti mai immaginato che lo fosse fino a quel punto. Insomma, ammettiamolo - almeno per i primi giorni - New York ti sembra Hellzapoppin'.
Il consorte era stato avvertito, ma naturalmente non mi aveva creduto. Era partito spavaldo, pensando che le mie fossero tutte esagerazioni, eppure già all'aeroporto JFK si era dovuto ricredere. Poverino, aveva immaginato di vivere la grande mela con la grinta narcisistica e un po' distruttiva del protagonista di un romanzo di Bret Easton Ellis e invece si trovava nel bel mezzo di Totò, Peppino e la malafemmina. Mi teneva per mano e si guardava intorno con la stessa aria falsamente sicura di sé che ostentava Totò al suo arrivo a Milano e io, nelle vesti di Peppino, non ero da meno. Vergognandoci come ladri, salimmo sulla limousine che c'era venuta a prendere (nonostante io avessi prenotato una normale berlina) e ci facemmo portare al Waldorf Astoria che il consorte, vittima di una visione reiterata de Lo zappatore con Mario Merola, si ostinava a chiamare il Uandaffastòr. Cenammo in camera con club sandwich e apple pie e poi, distrutti, ci mettemmo a letto. Un lettone king size morbido e comodissimo, di quelli che così li fanno veramente solo in America. Già pregustavo il sonno profondo che, mi auguravo, mi avrebbe fatto smaltire il jet lag e mi avrebbe messa nella predisposizione d'animo giusta per familiarizzare con New York quando il consorte, stiracchiandosi fra le lenzuola, fece il seguente commento: "In questo materasso si sprofonda. Sembra il letto di Johnny Depp in Nightmare". Naturalmente lui si addormentò subito e io invece non chiusi occhio.
Non vi stupirà sapere che io e il consorte rischiammo il divorzio durante quel viaggio perché, come mai prima di allora, a New York emersero con violenza tutti i tratti caratteriali che ci rendono inconciliabili. Io sono pigra per quanto lui è iperattivo, io sono curiosa per quanto lui è noncurante, io sono precisa per quanto lui è distratto, io sono decisa per quanto lui è indeciso. Sono convinta che rimanemmo insieme per un unico motivo: io, vittima del mio perfezionismo e del mio diploma in americano, non riuscivo a spiccicare una parola per timore di sparare qualche vongola, ma capivo perfettamente quello che mi dicevano; il consorte invece parlava anche con i cobblestone (quando ne trovava uno, ché a New York ormai sono pochissime le strade con l'acciottolato), ma non capiva assolutamente nulla di quello che gli dicevano. Insomma, nella nostra imperfezione, eravamo indispensabili l'uno all'altra. Avevamo messo a punto una tecnica fantastica che ci salvaguardava dalle figuracce: cercavamo di fare tutto - prenotazioni, ordinazioni, acquisti - al telefono. Il consorte parlava poi, non appena il suo interlocutore cominciava a rispondergli, passava la cornetta a me, che traducevo in simultanea e poi gli ripassavo il telefono. Altro che i fratelli Caponi alle prese con la stesura della lettera alla malafemmina!
A New York non c'era nulla che ci mettesse d'accordo. Il consorte voleva passare le serate nei locali alla moda a bere e ballare e io - che palla vivente! - a sentire il jazz. Il consorte voleva fare shopping e io - ma che palle! - volevo andare nei musei. Facemmo tutto; io accontentavo lui e lui accontentava me, perché da soli non ce la saremmo cavata, anche se la giornata dei saldi da Macy's mise veramente a durissima prova la mia salute psicofisica. L'unica eccezione a questa apoteosi di incompatibilità, fu sorprendentemente un ristorante: The River Cafè.
Al River Cafè, finalmente New York diventa quella che avresti voluto, a prescindere da ciò che desideri. A pelo d'acqua, con la città - ora riconoscibile - che ti si srotola davanti, il profumo dei fiori, le luci basse e la musica del pianoforte in sottofondo, potresti essere in un film di Woody Allen o in una puntata di Sex & the City, e ti guardi attorno per vedere se per caso a un tavolino un po' in disparte non ci siano effettivamente Carrie e Mister Big. Ma potresti anche essere in un romanzo di Bret Easton Ellis, mentre fai tintinnare il ghiaccio nel tuo vodka tonic e rimiri una fauna locale decisamente sopra la media, con l'occhio esperto del predatore. Al River Cafè potresti mangiare e bere malissimo, e non te ne importerebbe, ma invece si mangia e si beve divinamente, e basta andarci una volta per essere definitivamente conquistati. Lo ammetto, il mio matrimonio è salvo grazie a questo ristorante che, in un attimo, ci fece riconciliare non solo con la città, ma anche con la vita. Andateci, se doveste trovarvi a passare di là.
LA VELLUTATA DI ZUCCA DEL RIVER CAFÈ
Per 20 shottini, 6 porzioni da gourmet o 4 porzioni da golosi affamati
1 kg di zucca già priva di semi e scorza
500 g di patate già sbucciate
3 cipolle belle grandi (meglio se bianche)
sale, pepe, noce moscata
olio EVO
100 g di panna
semi di zucca tostati per la guarnizione (da non sottovalutare perché costituiscono anche un piacevole elemento croccante)
Naturalmente anche in quel luogo di assoluta perfezione che è il River Café, io e il consorte ci distinguemmo per imbranataggine e tendenza congenita alla gaffe. In attesa che il nostro tavolo a ridosso della vetrata si liberasse, ci avevano fatto accomodare a un altro tavolo in prossimità del bar, dove ci avevano servito gli aperitivi. A un certo punto, senza che noi avessimo chiesto niente, si presenta un cameriere con due tazzine da caffè su un vassoio. Il consorte, sobillato da me, si affretta a chiarire che noi non avevamo ordinato nessun caffè anzi, dovevamo ancora cenare ma il cameriere, glissando compassionevolmente, spiegò che quelle tazzine erano un omaggio dello chef, un amuse bouche per ingannare lo stomaco nell'attesa che il nostro tavolo fosse pronto. Dentro le tazzine c'era questa vellutata di zucca, meravigliosamente morbida e saporita ma non aggressiva, confortante, familiare eppure sofisticata, sorprendentemente dolce ma stuzzicante nel contrasto con i semi salati che ne guarnivano la superficie. Un sorso di perfezione che su di me, anche a distanza di anni, continua ad avere lo stesso effetto che, immagino, il Cynar aveva su Ernesto Calindri.
Farla è di una semplicità disarmante. Fate un trito con le cipolle e fatele dorare in un filo d'olio, aggiungete la zucca a pezzi, le patate a tocchetti e, dopo averle fatte rosolare qualche minuto, copritele a filo con dell'acqua fredda. Salate, pepate e lasciate cuocere fin quando patate e zucca non saranno ben morbide. Frullate con il minipimer, grattugiateci la noce moscata, aggiungete la panna e mescolate bene con una frusta. Servite la crema ben calda, guarnendola con i semi di zucca.
Per concludere, vorrei rassicurarvi sulle sorti del mio matrimonio. Benché provati dal viaggio di nozze, siamo rimasti insieme e quando, ancora oggi, mi domando come facciano due persone così diverse a dividersi la vita, mi basta rileggere Lui e io, un racconto di Natalia Ginzburg che fa parte della raccolta Le piccole virtù.
È incredibile come una sbirciatina nella vita degli altri renda molto più comprensibile la nostra.
Okkaido,Tromba di Albenga,Moscata di Provenza,Atlant Giant,Serpente di Sicilia,Napoletana,Siciliana,Marina di Chioggia.......Sono le mie....le conosci già.....Saresti capace di usarle tutte per tessere un serto regale...di velluto, ovviamente!
RispondiEliminaFiore
@Fiore: fra cinque giorni è Halloween, che vogliamo fare?
RispondiEliminaquel letto tipo nightmare avrebbe inquietato anche me :)
RispondiEliminaio ero talmente elettrizzato all'arrivo a NY che non ho dormito per due giorni!
anche tu al blue note? chi hai visto?
io una fantastica Rachelle Ferrell! voce da brivido!
Ti odio, è ufficiale. Come puoi in un post citare tutto cio' che mi piace con cotanta leggerezza? Perfino Helzapoppin'sei andata a tirar fuori!Per non parlare della zucca con cui farei anche il tè. Credo di adorare il tuo consorte.
RispondiEliminaManaggia!! Io e Mauri non ci siamo stati al River Cafè. Tempo di riparare!? (yesss)
RispondiEliminaBellissimo post mi sono fatta 'n sacco di risate. La scena con il compassionevole cameriere è stata un vero e proprio piccolo flash. L'ho proprio vista capisci? :D Stupendi davvero.
PS: dimenticavo! alla festa di Christian ho perso il conto degli shottini di vellulata di zucca che mi sono "scesa". Ingorda ma intenditrice :))
RispondiEliminaUn bel post, divertente alla lettura che descrive perfettamente sia l'anima di New York si il viaggio in coppia! (Ci Sono stata anche io lo scorso Dicembre con il mio ragazzo.. e ti giuro che le dinamiche del racconto sono conciliabili con quelle del mio.. :) Invitante anche la ricetta. Baci!
RispondiEliminail post più bello in assoluto...
RispondiElimina...la scena della tazzina è a dir poco esilarante...
la vellutata una meraviglia...
la mia è più semplice...
grande....mi viene voglia di tornare a NY...
ironico, divertente, commovente, romantico......insomma il tuo post è bellisimo e "gustoso" coma la tua vellutata di zucca.
RispondiEliminaserena
Lo sapevo… prima o poi sarebbe venuto il difficile…
RispondiEliminaEd è tutto straordinariamente colpa tua!
Ma come si fa a commentare un post, quando questo finisce sul più bello… ci provo, ma ci resto male. Ci torno su, forse non ho letto tutto, forse c’è un tasto “continua”… ma niente, è davvero tutto li…
Capisco che per coloro che ci sono stati, basta un tocco d’acquerello per i sapori e gli odori... ma come diceva il triste ma buon Leopardi, anche da piccole finestre, si possono ammirare grandi panorami.
E tu che fai… sul più bello mi tiri giù le persiane.
Cattivissima…
E dai… me lo scrivi un libro di 800 pagine… e dai!! Faccio la fila da Feltrinelli comme quelli di Roma da Trony... eddai!!
Ginuzz
Appena messo piede a NY mi venne in mente l'Uomo Ragno. I giorni successivi li passai in uno stato assai affine alla sindrome di Stendhal.
RispondiEliminaBel post, thanks for the memories.
PS: Vogliamo il New England clam chowder.
@Gio: Jane Monheit, che oltre a essere brava è anche molto bella. Lo spettacolo cominciò con una decina di minuti di ritardo perché il consorte, ignorando che fosse la cantante, ne ostacolava l'entrata in scena trattenendosi a chiacchierare con lei sulle scale. :-)
RispondiElimina@Circe: Signora Jones!
@Dani: Ma è meglio! Bisogna sempre lasciare qualcosa da fare o vedere per il viaggio successivo!
@Sugar: diciamocelo, i viaggi più divertenti sono quelli con le amiche ;-)
@Carla: grazie... Ma perché, te l'ho mai raccontata quella del consorte con le mani ustionate?
@Serena: grazie mille :-)
@Ginuzz: diamo tempo al tempo ;-)
@Maurizio: il New England clam chowder lo voglio anch'io. E smettila di cliccare!
ho finito di leggere e.... mi sono accorta di essere a casa e non a New York, ma avevo ancora in bocca il sapore salato del seme di zucca.
RispondiEliminagrandioso post ed immensa tu!
ps quando mi sono ritrovata a casa non avevo più le manolo!!!!!!
@Anna: te le avranno rubate all'angolo fra la terza strada e la trentaquattresima, proprio come a Carrie Bradshow. Ah, questi rapinatori fashonisti!
RispondiEliminaAdoroti, che hai scritto cobblestone e non al plurale.
RispondiElimina