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lunedì 9 luglio 2018

je chante



La mitologia familiare vuole che a far nascere in me la passione per il canto sia stata Raffaella Carrà. Lei intonava Macchemu' macchemu' e io, dall'alto dei miei venti mesi di vita, a quanto pare le rubavo la scena. Impossibile fermare una che ha avuto un imprinting del genere, e così io ho continuato a cantare - oserei dire ininterrottamente - per una buona trentina di anni.

Cantavo in bagno la mattina, e poi in auto mentre mi accompagnavano a scuola, e poi a scuola, durante la ricreazione ma spesso anche in classe, quando intonavo un motivetto senza neanche accorgermene. E cantavo il pomeriggio, infilando nel mangiadischi i 45 giri delle Fiabe sonore e infilandoli ancora ogni volta che lui li sputava fuori. Cantavo nella vasca da bagno, durante le cene in cucina con mio fratello. Cantavo di notte, per farmi compagnia quando mi svegliava un brutto sogno e facevo fatica a riaddormentarmi.

Cantavo le arie delle opere liriche con mia nonna, le canzonette (quelle d'amore, quelle allegrette) degli anni '30 e '40 con mio nonno, Ornella Vanoni e Mina con mamma, tutto il repertorio francese con zia Ia, i classici della canzone napoletana con tutti loro, a dimostrazione che pure se non ci fosse stata la Carrà il mio destino era comunque segnato dal dna.

Poi ho scoperto la collezione di 33 giri di papà, che cantava poco (il dna canterino era quello materno) ma ascoltava parecchio. Allora è stata la volta di De André, Dalla, i brasiliani, Burt Bacharach, i Beatles. E il jazz, che è entrato nella mia vita quando avevo sedici anni e non ne è uscito mai più.

Non ricordo neanche come, mi procurai una copia di The real vocal book e giù a cantare standard nel corridoio di casa di mamma per pomeriggi interi. Instancabilmente, continuamente.

Ma piano piano ho smesso. Il perché non so. O forse sì. Se ascolti musica e c'è qualcuno che ti spegne lo stereo, se canti e qualcuno ti chiede di stare zitta, prima o poi ti passa la voglia di farlo. E a me è successo proprio così. Lentamente ho dimenticato il piacere immenso che mi dava cantare, quel bisogno quasi fisico di intonare una canzone ogni volta che un luogo mi rimandava la mia voce amplificata da un'acustica perfetta. Che cosa triste, a ripensarci adesso.

Così quando la mia amica di mille cantate, quella con cui ho intonato di tutto, dalle canzoni dei film di Disney a La gatta cenerentola passando da De Gregori e Joni Mitchell, mi ha proposto di iscrivermi con lei a un corso di coro d'insieme, ho detto subito sì. E di colpo il mercoledì è diventato il giorno più atteso della settimana.

Perché cantare è bello, ma cantare insieme agli altri ti insegna come stare al mondo. Capisci che il tuo canto non ha senso se non si armonizza con quello altrui, che l'effetto della tua voce sommata alle altre dà vita a un tutto che è sicuramente maggiore delle parti che lo compongono. Cantare in coro ti insegna l'umiltà, l'ascolto e la grazia. Tre cose che mi hanno migliorato la vita anche quando me ne sono stata zitta.

E insomma, sabato scorso noi coreuti abbiamo fatto il saggio di fine anno. E insieme alla gioia del cantare tutti insieme c'era la tristezza del separarci fino a settembre. Ho pensato che noi, tutti belli attempatelli, in quel momento non eravamo diversi dai ragazzini che avevano suonato prima di noi, che lo struggimento della separazione era lo stesso. E sono stata felice.

Perciò questa ricetta è per tutti loro, perché l'ho cucinata per la festa di fine anno e ne sono stati entusiasti al punto da continuare a chiedermela anche il giorno dopo e quello dopo ancora. E proprio come le nostre voci, è fatta di ingredienti che mai metteresti insieme, eppure il risultato è talmente buono e confortante da non poterne più fare a meno.


Insalata tiepida di cavolo rosso e feta
dosi per 4 affamati o per 8 persone perbene

1 cavolo rosso da 1 kg
2 cipolle rosse
200 g di feta
70 g di uva passa
50 g di semi di girasole
75 ml di aceto balsamico
2 cucchiaini di zucchero di canna
3 rametti di rosmarino
sale qb
olio evo qb

Mi sono imbattuta in questa ricetta tanti anni fa, esattamente qui. Allora mi piacque l'idea che fosse inclusa nel ricettario di un monastero buddista, e pensai che fosse una di quelle pietanze magiche che hanno il potere di riconciliarti con il mondo. Non mi sbagliavo e, nel tempo, l'ho preparata tante di quelle volte da non aver più bisogno di leggere la lista degli ingredienti o pesare nulla. La so fare a occhio, come accade alle ricette del cuore.

Per prepararla bisogna cominciare dalla fine, ovvero dai semi che cospargerete sull'insalata quando sarà ormai pronta, come fareste con il parmigiano su un bel piatto di pasta al sugo. Metteteli in un tegame capiente (sarà lo stesso nel quale poi cucinerete il cavolo) e fateli tostare per qualche minuto. Aggiungete un pizzico di sale, lo zucchero di canna e mescolate fin quando lo zucchero sarà sciolto e avrà avvolto i semi rendendoli lucenti. Spostate subito i semi in un piattino, distribuiteli in uno strato uniforme e lasciateli da parte. Intanto tritate le cipolle e fatele appassire in quattro cucchiai d'olio. Aggiungete la metà del rosmarino tritato finemente, l'uva passa e infine il cavolo tagliato prima in quarti, privato del torsolo e poi affettato in striscioline di circa mezzo centimetro di spessore. Mescolate bene, aggiustate di sale e fate andare per cinque minuti. A questo punto aggiungete l'aceto balsamico, coprite il tegame per metà con un coperchio e fate cuocere fin quando il liquido si sarà asciugato e il cavolo sarà diventato tenero (nel caso aggiungete un po' d'acqua).

Quando il cavolo si sarà intiepidito, unite la feta sbriciolata e mescolate bene. Servite con le foglioline del rosmarino avanzato e i semi di girasole caramellati (non temete, anche se vi sembreranno un monoblocco riuscirete a spezzettarli facilmente con le mani).


Come sempre, fatemi sapere.

sabato 31 dicembre 2011

Salvavita


Quando sono stanca, sfiduciata, avvilita, impaurita, preoccupata, angosciata, scontenta o semplicemente triste, c'è una sola cosa capace di farmi cambiare umore: guardare La banda degli onesti.

Probabilmente con questa dichiarazione mi sono giocata gli ultimi scampoli di credibilità, ma non importa. Sono arrivata alla consapevolezza che questo film sia l'antidoto perfetto, la panacea contro tutti i mali, dopo lunghissima sperimentazione, e sono sicura di ciò che dico.

Per alcuni anni il mio salvavita è stato Victor Victoria. Divertente, acuto e accurato come solo i film diretti con il tocco felice di Blake Edwards sanno esserlo. Lo vedevo tutte le volte che non riuscivo a dormire perché era rasserenante sapere che, anche quando va tutto davvero male, spesso basta guardare le cose da una prospettiva diversa per volgerle a proprio favore. 

Poi è stato il turno di Una donna in carriera. Così meravigliosamente anni '80 con tutti quei capelli cotonati, le sneakers messe sotto il tailleur per dirigersi in ufficio con passo più deciso e scattante, e le spalline da giocatore di football americano. Lo vedevo per farmi coraggio perché è l'apoteosi del "se ci credi, puoi farcela", nonostante il finale un po' amaro con quell'inquadratura del grattacielo in cui la finestrella dell'ufficio di Tess McGill è solo una fra le tante.

Poi, in ordine sparso, Harry ti presento Sally, C'è posta per te (anche se preferisco infinitamente l'originale), Il favoloso mondo di Amélie... ma nessuno di loro ha il potere placante de La banda degli onesti, e vi spiego subito il perché.

A differenza di tutti gli altri che ho citato, La banda degli onesti - pur facendo ridere di gusto - non è un film che fa sognare, anzi è un film che ti tiene bene ancorato alla realtà. Una realtà concreta, dove si tira avanti fra mille difficoltà, dove si fatica ad arrivare a fine mese e i bambini, per farli svagare, si mandano a seguire un corteo funebre, dove c'è sempre in agguato dietro l'angolo qualcuno pronto a farti le scarpe, dove - sempre a proposito di scarpe - la felicità è poterne aveve un paio nuovo, dove mangiare spaghetti con le vongole e carne alla pizzaiuola è un vero lusso, dove l'unica cosa davvero irrinunciabile è la dignità.

Guardando questo film meraviglioso, si respira quella che immagino fosse la reale atmosfera degli anni '50 dove, seppure a fatica, si cercava di ricominciare, e soprattutto c'era - fortissima - la sensazione che il peggio fosse passato. Perciò adoro questo film, perché nonostante Bordini e Stocchetti voglia dire cambialetti, nonostante l'intimo di sfratto, nonostante il ragioniere Casoria, nonostante i tre eroi finiscano con l'essere più poveri di prima, il peggio è passato.

Auguro a tutti voi un 2012 migliore del 2011.
Il peggio è passato.


PATATE RIPIENE DI BROCCOLETTI
Per 4 persone

8 patate medie
500 g di broccoli baresi puliti
50 g di acciughe sott'olio
100 g di parmigiano grattugiato
un cucchiaio di aceto
una mangiata di uva passa
una manciata di pinoli
1  spicchio d'aglio
2 foglie d'alloro
sale e olio EVO

In omaggio al povero Giuseppe Lo Turco, vittima dell'ineffabile Antonio Buonocore, spero con questa ricetta di sfatare, una volta per tutte, il mito che la carne alla pizzaiuola sia più appetitosa di broccoletti e patate.


Sbucciate le patate e poi, se come me siete un po' folli e maniacali, dotatevi di una bella pietra pomice sintetica e levigatele fino a eliminare ogni asperità.


A questo punto armatevi di uno scavino e rimuovete la parte centrale della patata fino a creare una sorta di barchetta (potete utilizzare gli scarti per fare una qualsiasi vellutata).


Lessate le barchette in abbondante acqua bollente acidulata con l'aceto, salata e profumata con due foglie d'alloro, per 15 minuti.


Scolate le patate quando sono ancora al dente, ungetele per bene sia internamente che esternamente con l'olio, e tenetele da parte. Intanto preparate i broccoletti lessandoli e poi ripassandoli in una padella dove avrete fatto rosolare l'aglio in tre cucchiai d'olio e disciolto le acciughe. Aggiungete l'uva passa e i pinoli, poi spegnete la fiamma e mantecate con tre quarti del parmigiano grattugiato un po' doppietto.

Farcite le patate con i broccoletti, sistematele in una pirofila, cospargetele con il restante parmigiano e infornatele a 180° per una quarantina di minuti.


Servitele calde ma senza rischiare l'ustione.

martedì 13 dicembre 2011

Jacaranda


Come immagino sia successo a molte altre, da bambina rimasi folgorata da Cenerentola. Solo che io non subiì il fascino del cartone animato targato Disney, bensì quello del musical del 1955 diretto da Charles Walters, La scarpetta di vetro.

Inutile girarci intorno, la storia è sempre quella: una virtuosa ragazzina orfana di padre, cresciuta dalla matrigna crudele e relegata da quest'ultima al ruolo di sguattera a cui sono affibbiati i lavori più umili - mentre le due sorellastre, antipatiche e brutte, vengono trattate con i guanti bianchi - troverà alla fine l'amore e si riscatterà dal proprio infelice destino sposando il principe azzurro. 

La vera differenza fra questo film e quello della Disney non sta nella storia - che francamente non mi ha mai entusiasmata - ma in un elemento secondario che però, e non esagero, ha cambiato la direzione della mia vita: il personaggio della fata madrina.

All'adorabile, ma anche un po' irritante, Fata Smemorina della Disney, che non ha altro merito se non quello di possedere una bacchetta magica, con la quale per inciso si destreggia anche maluccio (un po' come Neville Paciock nei libri della Rowling), nel film di Walters corrisponde l'eccentrica Madame Toquet (in quest'unico spezzone da me trovato parla in portoghese, ma almeno così vedete che faccia ha).

Madame Toquet altro non è che la pazza del villaggio in cui abita Cenerentola, una vecchia vedova caduta in disgrazia che vive di espedienti rubando un po' qua e un po' là, e che tutti evitano con cura. Cosa c'è in lei di così affascinante da colpire la fantasia di una bambina e segnarla indelebilmente? Ve lo dico subito. Madame Toquet colleziona parole.

Da piccola la cosa mi parve meravigliosa (in realtà mi sembra meravigliosa ancora adesso). Non avevo mai pensato alle parole come a qualcosa di prezioso, una cosa che andasse coltivata, salvaguardata, e quel piccolo cambio di prospettiva mi aprì un mondo incantato, che era sempre stato lì a portata di mano, ma di cui non mi ero mai accorta prima.

Fra le parole collezionate da Madame Toquet c'era, ovviamente, Cenerentola - che le piace dal momento stesso in cui la giovinetta le rivela il proprio nome e che ripete più volte con intonazioni diverse, come assaporandolo - ma purtroppo non ricordo le altre, e non sono riuscita a trovare da nessuna parte un filmato (o anche solo la sceneggiatura) di quella scena per poterle recuperare.

Perciò quello che al momento posso fare, è elargirvi un po' di parole della mia personalissima collezione, cominciata il giorno stesso in cui vidi il film (credo 35 anni fa) e mai termitata.

Intercapedine, giuggiola, arcobaleno, mongolfiera, cinematografo, libercolo, ceruleo, alambicco, bisaccia, mendace, dagherrotipo, amaranto, ombelico, calamaio, stazzonato, arcolaio, astrolabio, sestante, ciottolo, accipicchia, baluginio, maggese, pervinca, pacciamare, bagnomaria, ranuncolo, parafulmine, dondolo, minuteria, vivandiera, crinolina, caleidoscopio, ineluttabile, arcano, piroscafo, epifania, riverbero, jacaranda...

Continuerei a scriverne per ore, anche solo per il piacere di mormorarle a fior di labbra mentre le scrivo e compiacermi di averle pronunciate levando loro la polvere di dosso perché - e non sono certo io a dirlo - il nostro lessico diventa sempre più povero, e di una povertà imbarbarita, disseminata di neologismi inutili, di anglismi, di italianizzazioni, di storpiature, di pleonasmi.

Perciò, visto che ormai siamo in clima natalizio, vi invito a farvi un regalo: aderite all'iniziativa della Società Dante Alighieri e adottate una parola da usare, coccolare e proteggere per un intero anno preservandola dall'uso improprio o dal finire dimenticata. 

La mia è plenicorno. E la vostra?


Patate MÈTRODOTÈL

Patate tagliate a tocchetti di media grandezza  (diciamo 4cm di lato, va')
Latte
Burro
Sale
Prezzemolo

Inutile dire che questo è il modo in cui le chiamavo quando ero piccola, credendo si trattasse di una parola italiana, e pensando avessero un nome che eguagliasse in bellezza la loro infinita bontà. In realtà le patate maître d’hôtel (è questo il modo giusto di chiamarle), sono state per anni la mia bestia nera in fatto di cucinelle. Mia nonna e mia madre hanno sempre accompagnato le istruzioni per farle con un liquidatorio "non ci vuole niente", e invece a me continuavano a venire immangiabili, provocandomi attacchi d'ira funesta seguiti da momenti di cupa depressione in cui dubitavo delle mie doti di cuoca.

Adesso che invece ho imparato a prepararle, posso finalmente dire anch'io che "non ci vuole niente". O meglio, niente di più che qualche piccola accortezza: tagliate le patate a tocchetti regolari, mettetele in una pentola dal fondo spesso (o in una cocotte in ghisa) e copritele con tanto latte quanto basta a creare un simpatico vedo non vedo. Aggiungete un paio di noci di burro (ovviamente più patate fate, più burro dovrete metterci) e il sale. Lasciate cuocere a fuoco bassissimo, girando il meno possibile, fin quando il latte - che si sarà asciugato - e le patate - che si saranno in parte disfatte - non avranno formato una sorta di crema dalla quale faranno capolino le patate ormai deliziosamente fondenti. A questo punto unite una bella manciata di prezzemolo tritato finissimamente, date una mescolata e servite. Abbiate pazienza e soffiate sulla forchetta prima di mandar giù anche un solo boccone perché, e parlo per esperienza, se vi fate prendere dalla golosità, l'ustione sul palato è garantita.


PS: Jacaranda è l'ultima parola entrata a far parte della mia collezione, ma è anche - anzi soprattutto - un meraviglioso albero della famiglia delle bignoniacee, con le foglie pinnate e i fiori dal blu al violetto, disposti a ciocche e così leggeri da essere facilmente cullati dal vento. Questi alberi tropicali da un po' di anni abbondano per le strade di Napoli, dove hanno sostituito i mandorli e gli agrumi piantati negli anni '60. 

Se còlti, i fiori avvizziscono ma i frutti legnosi - che se rimangono sulla pianta si dischiudono liberando dei piccoli semi alati - invece diventano sempre più belli, passando dal verde acceso delle rane, al marrone caldo del guscio delle tartarughe e quando seccano, se urtano l'uno contro l'altro producono un suono asciutto, come di nacchere. 

Sì, sembrano proprio nacchere... è un suono bellissimo... quasi quasi mi viene voglia di ballare il flamenco... 

Ok, forse è meglio che smetta di giocarci prima che il consorte si alzi dal divano in preda a una furia omicida e venga a strapparmeli di mano.