Ogni anno, a metà febbraio, passo cinque serate a tirar tardi davanti alla tv per poi ripromettermi, giunta ormai esausta e nauseata alla fine della quinta, di non farlo mai più. Eppure ogni anno ci ricasco. Mantengo un certo aplomb e un'aria studiatamente disinteressata fino alla fine - Hai visto chi c'è in gara? No e non m'importa, tanto io quest'anno non lo guardo. Hai visto che hanno annunciato i super ospiti? No ma sai, sono alle ultime cento pagine di Infinite Jest e sono presa solo da quello. Veniamo tutti da te a guardare la finale? No amici cari, mi dispiace, io ormai sono fuori dal tunnel e sabato sera il consorte guarda la partita della Juve. - ma poi puntualmente, alle 20.40 del fatidico martedì d'apertura, la casalinga di Voghera che segretamente alberga in me viene risvegliata dal lungo letargo (immagino con un segnale in codice; che so, il jingle della trasmissione) e si sintonizza su rai uno.
Quest'anno è andata esattamente come tutti gli altri da quando ne ho memoria, ma oggi che la lunga apnea è finita e sono tornata alla vita normale, ho cominciato a interrogarmi sul perché di una tale dipendenza. Per quale motivo io non posso fare a meno di guardare quel guazzabuglio di scenografie pacchiane, di pubblicità eterne e di canzoni mediocri che è Sanremo? Alla fine la risposta è stata disarmante nella sua semplicità: perché è liberatorio.
Guardare Sanremo regala lo stesso sottile piacere che si prova quando si è alla guida e si insultano gli altri automobilisti anche se non hanno fatto alcunché. Guardare Sanremo regala l'accanimento a prescindere.
Ti piazzi davanti al televisore e già sai che non ti andrà bene niente (e d'altra parte nessuno sano di mente potrebbe darti torto, quindi il piacere è doppio perché ti accanisci sapendo di essere nel giusto). Ti accanisci contro il siparietto comico d'apertura che non fa ridere, contro il balletto che è fuori contesto (poi qualcuno mi spiega che c'entrano Kubrick e 2001 odissea nello spazio con il festival della canzone italiana), contro il presentatore che neanche per un istante riesce a sembrare disinvolto e a non leggere, con grande difficoltà, le battute dal gobbo (mi è perfino venuto il dubbio che Morandi sia dislessico).
Ti accanisci contro i cantanti che non ti piacciono perché li hanno selezionati e sono in gara, contro quelli che ti piacciono perché sono caduti così in basso da partecipare a Sanremo, contro il pubblico in sala che applaude quello che tu fischieresti, contro le vallette pagatissime e incapaci, contro i vestiti improponibili e quelli troppo dimessi, contro chi predica per 50 minuti, poi continua a predicare quattro giorni dopo (ma stavolta perfino il pubblico ossequiante non ne può più e fischia), contro gli ospiti stranieri troppo altezzosi (che diamine, ma lo hanno capito o no che sono a Sanremo!), contro quelli scelti per i duetti che sono stati tirati fuori dalla naftalina giusto per l'occasione, oppure hanno palesemente fatto abuso di droghe subito prima di salire sul palco e non sono in grado di reggersi in piedi, figuriamoci di cantare.
Ti accanisci anche quando entra in scena la coppia più improbabile della canzone italiana - formata dalla vecchia gloria che, dopo averlo imboccato, il viale del tramonto lo ha anche percorso quasi tutto, e dal cantante tamarro che cerca di affrancarsi dalla propria tamarritudine - ed è fin troppo facile accanirsi.
Allora l'accanimento diventa virtuosismo e ti diverti a trovare l'epiteto giusto per marchiarli a fuoco una volta per tutte e renderli davvero indimenticabili. Lui sembra un pusher di periferia e lei una fattona, lui un pappone e lei un trans, lui uno dei village people e lei un boiler addobbato per l'infiorata di Genzano. Sulla canzone in sé taci, perché bastano loro e il modo in cui la cantano: lui a fronna e limone (come sempre. Canta così qualsiasi cosa) e lei emmettendo pochi suoni - perché ha perso la voce per strada e il cortisone non basta più a tirargliela fuori - e pronunciando frasi incomprensibili - perché fra lifting, botox e filling labiale ormai ha il viso paralizzato e a stento riesce a proferire verbo.
È una tale apoteosi dell'accanimento che quando all'improvviso ti accorgi che una canzone non ti dispiace, anzi ti piace e pure parecchio, quasi te ne vergogni. Aspetti a vedere se intanto lo dice qualcun altro, se un tuo collega accanimentista come te ha avuto a propria volta un calo dell'accanimento. Ma intanto è fatta perché la canzone hai già cominciato a cantarla senza rendertene conto (dannato orecchio assoluto!) e quando arriva la notte, la notte e resti solo con te...
Poi succede che qualcuno ti telefona venerdì e ti chiede se ti farebbe piacere andare con lui al San Carlo il giorno dopo per assistere a una Lucia di Lammermoor che tutti dicono essere strepitosa. Sai, ho due biglietti per il palco reale - aggiunge con noncuranza. Allora, come riemergendo da una trance indotta da un qualsiasi Giucas Casella, ti desti. La casalinga di Voghera torna a nascondersi nei meandri del tuo inconscio e tu torni a essere quella che era presissima dalla lettura delle ultime cento pagine di Infinite Jest.
Così passi un inizio di serata memorabile, guardando e ascoltando una Lucia di Lammermoor meravigliosa, con un Edgardo bello e bravo come non mai e una Lucia disperatamente virtuosa pur senza cadere mai nel virtuosismo fine a se stesso, e ti dici che quello è cantare, quella è musica! Poi continui la serata a cena fuori, mangi bene, chiacchieri ancor meglio, bevi di gusto e sei davvero felice perché da tempo non passavi una serata così bella.
Poi la serata finisce e tu e il consorte tornate a casa stanchi e appagati. Ormai è tardi, tu ti spogli e vai in bagno a struccarti e, mentre sei lì, senti che il consorte ha acceso il televisore. In un attimo il famoso jingle risuona nella casa silenziosa e in un attimo la casalinga di Voghera è di nuovo lì. Ma come, non è ancora finito Sanremo? - trilli gioiosa mentre scalzi il consorte dal divano, t'impossessi del telecomando, alzi il volume e ti godi tutto il ballottaggio per i primi tre posti, con relative esibizioni.
Naturalmente vince chi si sapeva avrebbe vinto, ma va bene così. Fra sistemi di votazione tarocchi (sappiamo che con i call center si può falsare il voto ma al momento non siamo in grado di impedirlo, perciò vi chiediamo di essere corretti e votare secondo regolamento, recita compito Morandi annunciando il televoto), esibizioni del comico dedito al turpiloquio più che alla battuta divertente, e una clamorosa sequela di gaffe, vongole e imprevisti, ti garantisci un'ulteriore buona oretta di accanimento, e quando alla fine vai a dormire e ti rannicchi sotto il piumone, sospiri di puro piacere.
Ah, che giornata perfetta!
PATATINE FRITTE (DELLA BUSTA)
Patate
Olio di semi di arachide
Sale
Non esiste svacco davanti alla tv che non necessiti di un po' di sano junk food da mandar giù compulsivamente, è una regola alla quale non si sfugge. Queste patatine poi rappresentavano per me un autentico tabù culinario perché, quando ero bambina, più di una volta la mia tata mi aveva irretita con la promessa delle patatine fritte COMEQUELLEDELLABUSTA! propinandomi invece dei dischetti piatti e mollicci, privi di qualsiasi appeal. Credo che il mio trauma infantile sia stato condiviso da più di un bambino illuso con la medesima promessa da una mamma zelante ma poco pratica, e pertanto incapace di replicare in modalità casalinga quella meraviglia industriale, perciò ora che ne ho scoperto i misteri, li divulgo con piacere, certa che me ne sarete grati.
I segreti per la chips perfetta sono tre: il taglio, il lavaggio e l'ammollo (!). Per un buon risultato finale, le fettine di patata non dovranno superare il millimetro di spessore. I metodi per ottenere delle fettine sottili e regolari sono vari. Quando il consorte compì quarant'anni, tagliai le patate con l'affettatrice elettrica (ma lì era una questione anche di quantità, visto che ne feci 4 kg), ma si può tranquillamente usare una mandolina di buona qualità o più semplicemente il pelapatate, avendo cura di non premere troppo e sfiorare appena la superficie del tubero.
Compiuta questa operazione, bisogna mettere le fettine di patata in una ciotola, piazzarle sotto l'acqua corrente, e sciacquarle fin quando non avranno perso tutto l'amido, ossia fin quando l'acqua da lattiginosa non diventerà trasparente.
A questo punto bisogna assicurarsi che l'acqua sia freddissima e dimenticarsi delle patate per ventiquattro ore. In questo lasso di tempo, non chiedetemene il motivo, le fettine cominceranno a incurvarsi al centro e ondularsi lungo i margini, assumendo così, benché ancora crude, il tipico aspetto della patatina industriale. Scolatele, asciugatele per bene in un canovaccio pulito che scuoterete ripetutamente, quindi friggetele in olio caldo fin quando non saranno dorate.
Asciugatele su carta paglia per privarle dell'olio in eccesso e servitele secondo i vostri gusti. Vanno bene sia calde che fredde, accompagnate con sale maldon, pepe nero marinato nel porto e sciroppo di balsamico se volete dar loro un tono gourmand, oppure con maionese e ketchup se siete stati adolescenti negli anni '80 e ne avete nostalgia o, più semplicemente, potete gustarle nature.
Come se fossero appena uscite dalla busta.