giovedì 17 ottobre 2013

Il vangelo secondo la Titta


La storia familiare narra che una delle grandi tragedie della vita della Titta avvenne una domenica mattina del 1934, quando Clara - la cuoca - si tolse il grembiule, lo piazzò fra le mani riluttanti della mia bisnonna, e si licenziò, abbandonando sul fornello il ragù ancora in cottura.

Sempre secondo i racconti, la Titta si prese la testa fra le mani con un gesto che anch'io le ho visto fare tante volte, e cominciò a disperarsi ripetendo affranta "E adesso come si fa? E adesso chi lo capisce quand'è che il ragù è cotto? E adesso chi lo sa quanta pasta si deve menare?".

Bisogna capirla, povera donna. La mamma della Titta, la nonna Elena, si era appassionata alla gastronomia in un'epoca in cui per una signorina bene entrare in cucina era considerato un sacrilegio e, vincendo le resistenze paterne, era diventata una cuoca eccezionale e intransigente. Competere con un tale modello di perfezione era impossibile per la Titta, che perciò aveva preferito disinteressarsi alla cucina e trincerarsi dietro un serafico "io per i fornelli non sono portata".

Quella domenica mattina però, fra lacrime e momenti di angoscia, con il ragù che borbottava ostile nella pentola e sembrava pronto a emulare il Vesuvio - che all'epoca fumava ancora -, decise che era giunto il momento che le cose cambiassero. Così il giorno dopo si vestì e uscì di buonora per poi tornare a casa trionfante, con quella che considerava la soluzione definitiva a tutti i suoi problemi.


La Titta affrontò la lettura del Talismano con piglio caparbio, sembrava quasi che avesse finalmente lanciato il guanto di sfida a caccavelle, mestoli e tielle, e in pochi mesi Ada Boni divenne la sua migliore amica. All'inizio timidamente, poi con fare sempre più sicuro, la Titta cominciò a sperimentare le ricette del libro e in pochi anni divenne una cuoca forse meno creativa, ma sicuramente degna di competere con la madre.

Quando nacqui io, 35 anni dopo, l'epoca dei maldestri tentavi culinari della Titta era ormai morta e sepolta. A differenza di sua madre - che era stata gelosa delle proprie ricette e parca di consigli - la Titta aveva spalancato le porte della sua cucina a figlia, nuora e nipoti, inaugurando la tradizione delle grandi corvée familiari fra i fornelli, che si ripetevano in modo puntuale in occasione di ogni festività.

Anche dopo decenni però, se aveva un dubbio, se non ricordava bene un tempo di cottura o quanto burro ci volesse in una ricetta, filava dritta alla libreria per consultare "i sacri testi" perché, com'era solita ripetere, "quello che dice Ada Boni è vangelo!". 

Nei 79 anni che sono trascorsi da quel remoto 1934, il Vangelo della Titta è passato di mano in mano, tramandato di generazione in generazione. Ha abitato la cucina di mia nonna, quella di mia madre, e alla fine è approdato alla mia, alla quale è giunto, meschinello, in queste condizioni.


Fortunatamente non sono una donna che si perde d'animo e, convinta da sempre che con un po' di buonsenso e un po' di buonavolontà si possa fare qualsiasi cosa, ho studiato in rete come fare a rilegarlo. 

Complici un ferro da stiro (le pagine rattrappite in qualche modo devono pur essere spianate, no?), le morse da falegname del consorte, un pezzo di tela da scenografia con la quale avevo fatto delle vecchie tende, una stoffa deliziosa comprata a Singapore e tanta tanta colla vinilica, il Talismano è diventato prima così...


poi così...


così...


e infine così.


Credo che la Titta sarebbe fiera di me.


Non appena il Talismano è stato nuovamente sfogliabile, mi sono messa alla ricerca di una ricetta da preparare. Doveva essere una ricetta della memoria, una di quelle che preparava la Titta. Pensando alle cose che non mangiavo ormai da anni, mi è venuta così in mente la pizza rustica, che la Titta chiamava "la pizza della spiaggia".

Ho cercato, consultato indice generale e indice tematico, sfogliato gran parte delle quasi ottocento pagine del libro, ma non c'è stato nulla da fare, la pizza rustica non c'è. Ce ne sono altre, è naturale, ma non c'è quella tipicamente napoletana che preparava la Titta.

Così, un po' delusa e ormai in preda alla smania, ho chiamato mia nonna al telefono e le ho chiesto la ragione di quell'anomalia. Com'è che la Titta conosceva una ricetta che non era inclusa nel Talismano? "Perché una grande cuoca non si accontenta di un libro solo" - mi ha risposto la nonna, prima di darmi la ricetta, deliziosa, che la Titta le ha tramandato e che ancora, alla bell'età di 97 anni, conosce a memoria.


PIZZA DELLA SPIAGGIA
dosi per uno stampo da pastiera di 26 cm di diametro

per la frolla:
500 g di farina
250 g di burro
200 g di zucchero
5 tuorli d'uovo
1 bel pizzico di sale

per il ripieno:
350 g di ricotta
300 g di fiordilatte
100 g di prosciutto cotto in un'unica fetta
100 g di parmigiano grattugiato
3 uova
1 pizzico di sale

Preparate la frolla mescolando la farina con lo zucchero e il sale, disponendo il tutto a fontana, mettendo al centro i tuorli e il burro a pezzetti, e lavorando gli ingredienti velocemente, con la punta delle dita, fin quando non si amalgameranno bene e non formeranno una massa compatta. Oppure, dato che sono passati 79 anni dai tempi in cui la Titta imparò a cucinare, schiaffate tutto nel mixer e lavorate a bassa velocità gli ingredienti fin quando non formeranno una bella palla.

Avvolgete l'impasto nella pellicola e mettetelo in frigo per mezz'ora. Nel frattempo tagliate a dadini il prosciutto e il fiordilatte (meglio se comprato il giorno prima e tenuto in frigo), quindi mettete la ricotta in una terrina, lavoratela con una spatola per renderla setosa e aggiungete le uova una alla volta, unendo la successiva quando la precedente sarà ben amalgamata. Aggiungete il sale, il parmigiano, i dadini di prosciutto e quelli di fiordilatte, e mescolate il tutto fin quando non avrete ottenuto una miscela omogenea.

Prendeta la frolla dal frigo, tagliatela in due pezzi in modo da ottenerne uno un po' più grande dell'altro, e stendete la quantita maggiore, con la quale rivestirete il fondo della teglia (non c'è bisogno di imburrarla). Disponete all'interno il ripieno, livellatelo bene, stendete il resto della frolla e quindi ricoprite la pizza sigillando bene i bordi.

Cuocete per un'ora in forno già riscaldato a 180°, lasciate intiepidire, sformate la pizza, fatela raffreddare bene, una volta fredda, sistematela in frigorifero per almeno un paio d'ore. È questo il vero segreto.


Oggi c'è un gran bel sole.
Io quasi quasi vado a mare a farmi un ultimo bagno.
In fondo questa è o non è la pizza della spiaggia?

giovedì 3 ottobre 2013

Essa, Iddu e 'o malamente


Nel luglio del 2009 giunsi alla consapevolezza che, ahimé, per quanto ci si impegnasse, il consorte non avrebbe mai davvero amato la montagna. Ogni volta che io pregustavo con sguardo sognante i giorni che avremmo trascorso a Roccaraso, il suo sguardo diventava un po' più triste, le labbra si piegavano impercettibilmente in una smorfia amara, mentre con tono appena sarcastico commentava che anche lui non vedeva l'ora. Insomma, la situazione era più grave di quanto avessi pensato e compresi che per evitare una temibile depressione consortile bisognava correre ai ripari e cedere - almeno una volta - al suo desiderio di mare, mare e ancora mare.

Così, in modo anche abbastanza naturale, la scelta della destinazione cadde su Stromboli, isola assiduamente frequentata da tanti dei nostri amici e dove anch'io, una ventina di anni prima, mi ero distinta per alcune simpatiche performance, che molti ancora ricordano (tipo catapultarmi sulla terraferma ancor prima che la nave attraccasse al piccolo molo, spiccando un salto in lungo in stile Fiona May che nessuno - e tantomeno io - mi avrebbe ritenuta in grado di effettuare, perché ero talmente estenuata dalla mareggiata notturna da non resistere un secondo di più sul traghetto senza dare di stomaco).

A meno che non ci si metta in auto e non si punti dritto a Roccaraso, dove la magione è già equipaggiata di tutto il necessario, in casa Gastronomica organizzare una partenza non è mai cosa semplice. C'è da preparare la mia valigia, quella del consorte, quella dei cani - che comprende ciotole, asciugamani, medicine, crocchette, umido e giochi - e quella della biancheria. Poi ci sono la borsa della tecnologia, quella dei libri, quella delle vettovaglie. Insomma, da noi non si parte, si emigra.

Fu così anche quella fatidica estate del 2009, in cui ci ritrovammo sulla nave diretta alle Eolie con tre cani, quattro valigie, una cesta da picnic, la mia migliore amica al seguito (con relativa valigia), una cabina di seconda classe senza bagno e un posto ponte.

Anche solo issare a bordo il nostro piccolo zoo e tutti gli orpelli che ci trascinavamo dietro fu una fatica immane, ma quando finalmente il consorte e Carla riuscirono a infilare tutti i bagagli in cabina - mentre io aspettavo con i cani sul ponte, in una sospetta versione punkabbestia di me stessa -, cominciammo finalmente a rilassarci.

Sistemati sull'ultimo ponte della nave, il più ventilato (e, ahimé, anche il più umido, come scoprii più tardi), consumammo la cena di compleanno del consorte - da me preparata in precedenza e sistemata in un'elegantissima cesta di vimini - che innaffiammo con una bottiglia di champagne gelato destando lo stupore di chiunque ci osservasse, per l'evidente contrasto fra il nostro aspetto un po' lercio e stazzonato, e la chiccheria della cena a base di finger food di deliziosa fattura. "Stanno pensando che questa cena l'hai rubata", sentenziò il consorte spostandosi all'altra estremità della panca, lontano da me, per evitare di essere accusato di complicità nel misfatto.

Due ore dopo eravamo pronti per andare a dormire. E cominciarono le discussioni per chi dovesse sistemarsi in cabina e chi dovesse rimanere sul ponte, con i cani.

Ora, credo che tante fra voi, gentili signore, condivideranno il mio pensiero: molto meglio dormire scomodi, o non dormire affatto, badare ai cani e prendere l'umido, che doversi sorbire per tutta la vacanza le lamentele del consorte che in un impeto di galanteria si era offerto di restare all'addiaccio, ma avrebbe di sicuro poi accusato raffreddori, nevriti, dolori reumatici e forse anche il gomito del tennista e il ginocchio della lavandaia.

Così, affidati a lui tutti i mei beni e ottenuti in cambio un materassino e una coperta presa in prestito dalla cabina, lo spedii a dormire con Carla e mi sistemai sul ponte, circondata dai cani, a cui avevamo già somministrato un tranquillante alle erbe a scopo cautelativo, ma che tenevo comunque al guinzaglio.

Mi accingevo a raggomitolarmi sotto la coperta e sprofondare quantomeno in una sorta di dormiveglia, quando da un sacco a pelo sistemato su una panca poco distante emerse un ragazzotto sui vent'anni.

- Signora, lo sa che qui i cani non ci possono stare?
- Guardi, i cani non possono stare nelle aree all'interno, ma qui è consentito tenerli.
- Però dovrebbero avere le museruole.
- Ha ragione. Però vede, i miei cani sono anziani, sono buonissimi, sono stati sedati e li tengo anche al guinzaglio. Le assicuro che non ha nulla da temere.
- Signora, io invece temo. E se lei si addormenta, rilassa le articolazioni, i guinzagli le sfuggono di mano, i cani scappano e vengono a mordermi?
- La vedo difficile dato che ho infilato i guinzagli intorno al polso. E comunque ho il sonno leggerissimo, mi sveglierei.
- E se invece non dovesse svegliarsi? Lei deve andasene da qui, si cerchi un altro posto.
- Io non mi cerco un bel niente. È lei che ha paura, si sposti lei.

Nel frattempo intorno a noi si era formata una piccola folla che seguiva il dibattito voltando la testa a destra e sinistra neanche stesse assistendo a una partita di tennis sul campo centrale di Wimbledon, e la cosa finì con l'attirare l'attenzione di un ufficiale di bordo, che venne a chiedere cosa stesse succedendo.

Il ragazzotto espose il caso con una dovizia di particolari degna di Se voi foste il giudice, e finì col convincere l'ufficiale a farmi sloggiare. Questi mi si rivolse con garbo, spiegandomi che effettivamente i cani non avevano la museruola e visto che il signore aveva paura... 

Io però non lo lascia finire e, infervorandomi, chiarii che le museruole c'erano, ma erano nel bagaglio che avevo affidato a mio marito, che era in una cabina di cui ignoravo il numero, in compagnia della mia migliore amica. Io invece ero lì, costretta a dormire a terra per badare ai cani - di cui una afflitta da sindrome abbandonica, uno epilettico e l'altra cieca -, troppo malridotti per essere sistemati nelle gabbie in stiva. Quello che potevo fare per rendere più sereno il giovanotto, era legarmi i guinzagli dei cani alla cinta della gonna, di modo da non correre il rischio che si allontanassero, ma di spostarmi non ne avevo alcuna intenzione, anche perché - rivelai scansando la coperta con un gesto a effetto - ero una grande obesa e, anche solo per alzarmi, avrei fatto una faticaccia che poteva rivelarsi fatale.

L'ufficiale, che aveva accompagnato ogni mia singola frase con un "ah-ah" fra lo stupito e l'indignato, mi guardò per un attimo senza parlare, poi se dette una bella scossa e si rivolse al mio vicino con fare risoluto. 

- Giovanotto, se proprio non sopporta queste tre bestiole mansuete, prenda la sua roba e vada da un'altra parte. Mi sembra che con il marito e le amiche che si ritrova, la signora abbia già sofferto abbastanza!

Dato che il buongiorno si vede dal mattino, non vi sorprenderà sapere che quella vacanza non solo si rivelò disastrosa, ma ebbe anche il deleterio effetto collaterale di provocare nel consorte un violentissimo innamoramento per Stromboli, che da allora considera suo buen retiro, tanto che - in solitudine - ci è andato nel 2010, nel 2011 e anche nel 2012.

Quest'estate però si è imposto, e mi ha costretto a seguirlo, stavolta senza cani, senza ceste da picnic, con solo un bagaglio minuscolo di facile trasporto e soprattutto dopo essersi assicurato una cabina di prima classe con bagno. 

Devo ammettere che la vacanza è andata molto meglio di quella precedente, e riconosco che Stromboli - con Iddu che ti ricorda costantemente la sua presenza con brontolii e getti di lava, con il nero delle rive che contrasta con il blu profondo del mare, con le sue bouganville multicolore, i suoi ibiscus, gli innumerevoli fichi che ombreggiano i viottoli e dai cui rami puoi cogliere senza sforzo i frutti e gustarli tiepidi mentre vai a mare - continua ad avere un grande fascino. Ma purtroppo ormai è molto diversa dall'isola della mia adolescenza, o forse sono molto diversa io.

Perciò se non ci siete mai stati e volete andarci, andateci ora. 

Andateci ora che il caldo non è più insopportabile, che le spiagge non sono affollate, che l'acqua è cristallina e senza meduse, che non è invasa dai napoletani, che non è tanto cara da farvi compromettere il conto in banca, che potrete godervi il silenzio e i tramonti con lo Strombolicchio che si tinge di rosa.

Per quanto mi riguarda, dopo essermi ustionata i piedi sulla sabbia rovente, essere stata urticata dalle meduse, aver fatto da esca a tutte le zanzare dell'isola, e aver passato la maggior parte del tempo a tergermi il sudore, ho deciso che l'anno prossimo andremo sulle Dolomiti.

Il consorte dovrà farsene una ragione.
















L'ultima foto immortala le mitiche melanzane a scarponciello dell'altrettanto mitica zia Pia (che non è mia zia ma è come se lo fosse) che - vai a capire perché - hanno fatto venire al consorte la smania per le melanzane sott'olio.

- Bene, da quanti anni non me le fai?
- Perché sono un po' scoccianti.
- Non possono essere più scoccianti della marmellata di limoni.
- Mmmmm
- E nemmeno del nocillo.
- Non ne sono convinta.
- Bene, se hai fatto la marmellata di rosa canina puoi fare pure le melanzane sott'olio!
- ...


MELANZANE SOTT'OLIO

Melanzane
Aceto
Olio
Aglio
Origano
Peperoncino
Sale

Confesso di aver fatto un po' la difficile, perché fare le melanzane sott'olio in fondo non è poi questa gran seccatura e il consorte ha ragione quando sostiene che mi sono cimentata in imprese ben più complicate. In realtà bastano qualche piccolo accorgimento e qualche trucco per cavarsela senza grande sforzo.

Naturalmente è inutile dare dosi precise ma, giusto per darvi un'idea, io con 6 chili di melanzane ho riempito due barattoli da un litro e questo barattolo piccolo, che avrà sì e no 250 ml di capacità.


Si procede così: si sbucciano le melanzane, si tagliano a fette doppie un paio di centimetri e quindi a strisce di un paio di centimetri di larghezza. Man mano che le tagliate, sistemate le melanzane in uno scolapasta, salatele e poi copritele con un piatto che contenga dei pesi, in modo che siano ben pressate.


Trascorse ventiquattr'ore, togliete i pesi, munitevi di uno schiacciapatate, infilateci le melanzane - poche per volta, c'è bisogno di dirlo? - e pressatele bene per privarle dell'acqua di vegetazione. Intanto in una pentola capiente mettete a bollire acqua e aceto bianco in ugual quantità. Quando l'acqua sarà arrivata a bollore, gettateci le melanzane (occhio, devono avere spazio perciò magari ripetete l'operazione più volte ma non comprimetele), fatele bollire per un minuto, quindi scolatele con una schiumarola e via di nuovo nello schiacciapatate per una nuova strizzatina e una nuova perdita di liquidi.

A questo punto mettete le melanzane ad asciugare ben stese su un canovaccio pulito, sterilizzate i barattoli (potete bollirli o sterilizzarli per 30 minuti in forno a 130°), quindi disponete le melanzane nei vasi facendo un primo strato di verdura, unendo peperoncino, aglio e origano secondo il vostro gusto e poi coprendo con olio, per poi ricominciare con lo strato successivo (in questo modo eviterete che si formino le bolle d'aria).

Quando avrete riempito tutto il barattolo, potrete finalmente pressare le melanzane e, nel caso avanzasse spazio, aggiungerne delle altre. Fermatevi a un paio di centimetri dalla strozzatura del barattolo, e assicuratevi che le melanzane siano coperte da un bel dito d'olio.

Procedete quindi a una seconda sterilizzazione, mettendo i barattoli in acqua fredda, avvolti in un canovaccio, portando poi ad ebollizione e tenendoli sul fuoco per 30 minuti e facendoli poi raffreddare nell'acqua.

Come avete visto il procedimento è abbastanza semplice - sempre a patto che si possegga un salvifico schiacciapatate.

La cosa ben più complicata è invece armarsi di santa pazienza e aspettare che trascorrano i canonici quindici giorni per poterle finalmente assaggiare.

Come il consorte ben sa.